Sono stato a Parigi lo scorso febbraio e ho potuto partecipare alle manifestazioni di martedì 7 e sabato 11. Rispettivamente la terza e la quarta giornata di sciopero generale e di manifestazioni contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron e dal governo guidato da Élisabeth Borne. Manifestazioni e scioperi sono stati convocati dal fronte intersindacale unito, che associa i principali sindacati francesi (CFDT, CGT, FO, CFE-CGC, CFTC, Unsa, Solidaires, FSU).
Personalmente è stata una boccata d’aria pulita salutare, soprattutto emotivamente. Ritrovarsi in mezzo a tanti altri corpi felici e sorridenti, uniti e solidali nella protesta e nella lotta, è stata una sensazione fisica positiva e vitale. Congiunta a un sentimento di dignità politica, di appartenenza a una forza collettiva e a una tensione comune. Il contrario della marginalità e dell’impotenza politica. Un rialzare la testa, individualmente e collettivamente. Questa esperienza mi ha permesso di ritrovare un passato recente ancora ben vivo in me e di immergermi nuovamente nell’atmosfera sociale francese e parigina. Credo che sia stato e sia ancora un sentimento condiviso da molti cittadini e cittadine francesi o comunque residenti in Francia. Già in quei giorni avevo avuto l’impressione che si trattasse di un movimento sociale di massa davvero ampio ed esteso. Forse il più importante e partecipato della storia francese recente, pur generosa di lotte sociali sin dal 2016. I fatti delle ultime settimane lo hanno confermato.
Ho vissuto a Parigi dieci anni e ho partecipato a svariate manifestazioni e movimenti sociali, ma l’impressione è stata di non aver mai visto così tante persone in piazza. Non nel 2016 durante il movimento contro la loi Travail (il Jobs Act francese), voluta dal presidente socialista François Hollande e dal governo guidato da Manuel Valls, con un giovane Macron al Ministero dell’Economia. Allora le proteste avevano dato vita a Nuit Debout, l’occupazione permanente – che aveva animato dibattiti democratici, confronti e incontri sulla Place de la République di Parigi dal 31 marzo fino a giugno inoltrato del 2016 – ispirata all’esperienza degli Indignados spagnoli del 2011. Non durante le manifestazioni contro i decreti presidenziali di Macron nel 2017 (le ordonnances conosciute impropriamente come loi Travail 2), che prolungavano e terminavano il lavoro cominciato da Hollande e Valls l’anno prima. Non durante il movimento contro l’eliminazione dello statuto dei ferrovieri della SNCF nel 2018.
Lo spartiacque rappresentato dai Gilets Jaunes
Nemmeno durante lo sconvolgimento sociale e politico intenso e duraturo prodotto tra il novembre del 2018 e la primavera inoltrata del 2019 dai Gilets Jaunes (Gilet gialli) si era raggiunto un tale livello di partecipazione popolare. Eppure quella era stata una scossa profonda che aveva attraversato e smosso in profondità tutta la società francese, a partire dai villaggi delle campagne periferiche e dalle piccole cittadine delle zone peri-urbane. Ogni sabato i Gilet gialli si riversavano e si concentravano a Parigi da tutta la Francia per una manifestazione nazionale di carattere simbolico. Un’intelligenza politica istintiva e popolare gli ha permesso di puntare immediatamente i luoghi di potere, di vita e di consumo situati nella Parigi bene dell’alta borghesia. Un puro istinto di classe, innato. D’altronde i primi actes (come erano chiamate e numerate le manifestazioni del sabato) avevano colto completamente di sorpresa e impreparati Macron, il governo, i media, la polizia. I Gilets Jaunes sono stati davvero un fenomeno sociale e politico inaspettato e imprevisto. Nato e sviluppatosi fuori da ogni radar politico e mediatico.
Ma la centralizzazione parigina serviva proprio per dare visibilità ed esistenza mediatica al movimento, che era radicato e traeva linfa vitale altrove. Non nella capitale ma nella province. Un vero e proprio culturema francese. Un oggetto culturale tipicamente francese e un’espressione intraducibile in italiano, il termine “provincia” non le rende appieno giustizia. È incomprensibile se non si considera il centralismo francese. La Francia è un vecchio Stato-nazione centralizzato. Il processo di unificazione nazionale si è costruito intorno a Parigi, perno e punto focale dello Stato e della nazione. Ma non si può comprendere Parigi senza la dicotomia con la province, come è comunemente definito nel gergo popolare il resto del territorio francese all’infuori della capitale. E non si può capire la campagna profonda francese senza considerare l’opposizione con Parigi e con i parigini.
Tutto ciò ha fatto sì che i Gilets Jaunes fossero in realtà un movimento ben poco parigino e non particolarmente radicato nella capitale. E in generale non molto urbano e metropolitano. Infatti hanno attecchito relativamente poco anche nelle periferie e nelle banlieue delle città medio-grandi. L’essenza del movimento risiedeva altrove, nella province, nella campagna profonda, nei villaggi, nelle piccole cittadine, nelle città medio-piccole. I Gilets Jaunes sono nati con i blocchi stradali sulle strade statali e provinciali, nelle rotonde occupate con le loro capanne di legno regolarmente distrutte dalla polizia e costantemente e ripetutamente ricostruite. Respiravano nelle assemblee popolari autogestite, vere e proprie forme di democrazia spontanea e diretta. Luoghi di discussione, di dibattito, di liberazione della parola. Di confronto e di scontro. Una palestra politica e democratica che ha permesso la ripoliticizzazione di una parte consistente di popolazione precedentemente spoliticizzata, appartenente principalmente a classi popolari e medio-basse. Molte persone in passato apolitiche o politicamente passive hanno ripreso in mano la loro vita e si sono impegnate con il proprio corpo. In prima persona, fuori da qualsiasi etichetta politica, fuori da partiti e sindacati. Un’affermazione di esistenza che ha costretto i grandi media francesi a fare (almeno parzialmente) autocritica sulla rappresentazione delle classi popolari e sulla violenza simbolica e culturale esercitata dalla borghesia parigina e francese. I media sono stati costretti a dare la parola ai Gilet gialli e ad ascoltarli umilmente, mettendo da parte, almeno per un momento, spocchia e condiscendenza.
Poi certamente anche all’interno dei Gilets Jaunes c’erano persone già politicizzate, soprattutto di estrema sinistra (sinistra radicale, comunisti, anarchici, autonomi) e di estrema destra. Anzi all’inizio l’impulso è arrivato più da gruppuscoli che gravitavano nell’orbita dell’estrema destra. Ma nel breve-medio periodo l’estrema sinistra è riuscita a egemonizzare il movimento, che politicamente ha finito con l’esprimere parole d’ordine di sinistra e rivendicazioni democratiche, sociali e di classe: reintroduzione dell’imposta sul patrimonio mobiliare abolita da Macron appena arrivato al potere nel 2017, aumento dei salari, introduzione di un referendum di iniziativa cittadina (RIC) e di forme di partecipazione popolare democratica e dal basso. Quindi redistribuzione della ricchezza e riappropriazione popolare e democratica del potere. Insomma tensione verso un mondo migliore e più giusto, sblocco dell’immaginazione sociale e politica, sentimento di solidarietà e di appartenenza a una comunità, a un orizzonte comune.
Il problema è che Macron ha risposto con la repressione e la violenza poliziesca. La sola concessione politica è stata una caritatevole e quasi sprezzante prime d’activité mensile (un contributo economico statale) per i lavoratori poveri, al di sotto dello Smic (il salario minimo francese).
Si trattava comunque di un movimento complesso, ambivalente e contraddittorio. Non nasceva dai sindacati né dal popolo di sinistra, che vi ha aderito solo parzialmente. Non era quindi espressione della cultura politica di sinistra, anzi sicuramente in parte esprimeva istanze culturali di destra. Fondamentalmente era un gran calderone, c’era dentro di tutto. E questo era al tempo stesso il suo pregio e il suo limite. Da un lato ha consentito la ripoliticizzazione di un pezzo di società francese, ma dall’altro ha tenuto al suo interno istanze qualunquiste e nazionaliste. Certamente l’estrema sinistra col tempo è stata capace di svolgere un ottimo lavoro di “entrismo” e di costruzione di egemonia politico-culturale. Dopo una prima reazione di diffidenza, per tutte queste ragioni e per il carattere profondamente e intimamente francese dei Gilet gialli, personalmente sono stato un osservatore attento e curioso, sempre più coinvolto e benevolo con il passare del tempo, un simpatizzante che ha partecipato marginalmente a qualche manifestazione. Soprattutto per curiosità e per voglia, necessità, esigenza e urgenza di comprendere cosa stesse avvenendo. Perché ho sentito che si stavano smuovendo placche tettoniche nel profondo della società francese, che lo si volesse o no. A prescindere da qualsiasi giudizio politico.
Ritorno al presente
Questi accenni rapidi e superficiali servono a ricordare che il movimento di oggi non nasce dal nulla ma ha una storia che si radica nella conflittualità francese degli ultimi anni, nell’accumulazione di forza sociale e nella convergenza di diverse pratiche, tattiche e forme di lotta che coesistono le une accanto alle altre. Esiste una continuità nelle lotte sociali francesi almeno dal 2016, nonostante la pandemia globale, l’emergenza sanitaria e i ripetuti lockdown. Se mi sono soffermato particolarmente sui Gilets Jaunes, è perché credo che abbiano rappresentato uno spartiacque nella storia recente delle lotte francesi, e che siano imprescindibili per comprendere l’ampiezza e l’estensione del movimento contro la riforma delle pensioni voluta da Macron. I Gilet gialli a mio avviso sono un fenomeno ancora parzialmente incompreso, che ha lasciato tracce profonde nella società francese e che sta ancora producendo effetti sociali e politici. E forse continuerà a farlo nel medio-lungo periodo.
Il movimento attuale riprende infatti un discorso interrotto, visto che Macron aveva già provato una prima volta a far passare la riforma del sistema pensionistico francese tra il 2019 e il 2020, durante il suo primo mandato. E già allora aveva scatenato una risposta conflittuale e combattiva, alimentata dal recentissimo sommovimento dei Gilets Jaunes, all’epoca ancora “caldissimo”. I sindacati erano stati ferocemente criticati ma anche rivitalizzati e sospinti a lottare e a radicalizzarsi dai Gilet gialli e dalle loro stesse basi sindacali. Forse il fronte intersindacale unito, compatto e combattivo di questi giorni è ancora memore di quei movimenti. Anzi, sembra che abbia anche imparato qualcosa, innanzitutto a riascoltare la “base”, le richieste e le esigenze delle persone comuni. Sebbene nel frattempo il mondo sia cambiato radicalmente, e di certo non in meglio. Infatti in mezzo ci sono state la pandemia e la crisi sanitaria per il Covid-19, la guerra in Ucraina, l’aumento esponenziale dell’inflazione su materie prime, energie e beni di prima necessità e la crescita dei tassi di interessi. Una crisi economica che serpeggia latente dal 2020, pronta a esplodere. Tra l’altro nel marzo del 2020 pandemia globale, emergenza sanitaria e lockdown erano arrivati in Francia in pieno movimento contro la riforma delle pensioni. E Macron era stato costretto a sospenderla per concentrarsi sull’emergenza sanitaria.
Una strenua difesa del modello sociale francese
Esiste quindi chiaramente un tratto comune nelle politiche portate avanti da Macron e nelle lotte che si susseguono dal 2016: il ritorno evidente al centro del quadro politico e mediatico francese della questione sociale. Da una parte un’offensiva aggressiva da parte di Macron, che rimette in discussione le conquiste sociali del Novecento e attacca in profondità il modello sociale francese. In continuità con quanto già iniziato prima di lui da Chirac, Sarkozy e Hollande, ma con un’accelerazione importante. Dall’altra una risposta chiara e determinata della società francese, che cerca di preservare un proprio modello sociale e un’idea di comune.
Tutta l’azione politica di Macron mira a peggiorare le condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari e medio-basse e a favorire gli interessi della borghesia capitalista. Basta riportare le misure legislative oggetto di contestazioni e proteste. L’attacco al code du travail (il codice del lavoro, l’equivalente dello statuto dei lavoratori) che ha ridimensionato il suo valore, indebolito la sua portata e aumentato anche in Francia la precarizzazione del mercato del lavoro. L’eliminazione dello statuto dei ferrovieri della SNCF. L’abrogazione dell’imposta sui patrimoni mobiliari. E adesso la riforma del sistema pensionistico, con l’aggiunta di due anni di lavoro supplementare (da 62 a 64 anni), che tocca gli interessi di tutti i lavoratori francesi e cristallizza lo scontro politico. È la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La Francia sta subendo dal 2016 le riforme neoliberiste che in altri paesi dell’Europa meridionale erano state imposte ben prima. La società francese non ci sta e reagisce lottando.
Il movimento sociale è cominciato con gli scioperi generali e le manifestazioni di massa di giovedì 19 e martedì 31 gennaio, i primi due appuntamenti. Milioni di francesi hanno fatto sciopero, non sono andati a lavorare e sono scesi in piazza e nelle strade a manifestare. E continuano a farlo. Il punto di svolta è arrivato a marzo. Dopo la quinta giornata di sciopero, il 16 febbraio, il movimento si è fermato intelligentemente per tre settimane, durante le vacanze scolastiche invernali. Gli scioperanti hanno potuto riprendere fiato, ricaricare le pile e alimentare le caisses de grève (le casse comuni a sostegno di chi si astiene dal lavoro) in vista della ripresa della mobilitazione a partire dal 7 marzo. L’ambizione era di bloccare il paese con uno sciopero generale interprofessionale che si prolungasse anche l’8 e il 9 marzo. L’obiettivo era forse troppo alto e non è pienamente riuscito. Però il livello di mobilitazione si è alzato e varie categorie sono entrate in scioperi prolungati (grève réconductible). A partire dai netturbini, che hanno smesso di raccogliere i rifiuti, rimasti per giorni nelle strade delle grandi città. A Parigi per oltre tre settimane.
Una delle peculiarità del movimento è la congiunzione e la saldatura tra forme di lotta classiche della tradizione sindacale e blocchi stradali di vario genere e natura ereditati dai Gilet gialli. Da un lato svariati scioperi sindacali in diversi settori: netturbini, raffinerie di petrolio, settore dell’energia, trasporto (treni e metropolitane), funzione pubblica (scuola, sanità, funzionari amministrativi), portuali. Con una forte solidarietà da parte di giovani, studenti e precari. Dall’altro lato si sono rivisti blocchi stradali sulle rotonde delle strade statali e provinciali, ma anche interruzioni della circolazione sulle tangenziali urbane (a Parigi, Rennes, Nantes) e presidi ai pedaggi delle autostrade, per consentire agli automobilisti di passare gratuitamente. Forme di lotta già utilizzate dai Gilets Jeunes.
L’intensificazione degli scontri e della repressione poliziesca
Alla crescita della mobilitazione di piazza si è aggiunta poi a una forte opposizione parlamentare. Infatti il governo guidato da Borne ha solo una maggioranza relativa e non assoluta all’Assemblée nationale. Per questo si è trovato spesso stretto tra la NUPES a sinistra e l’estrema destra nazionalista dall’altra parte, oltre all’opposizione di una parte dei centristi e al mal di pancia della destra ex-gollista dei Républicains. Il rischio di non avere una maggioranza per far passare la riforma ha spinto Macron e Borne a ricorrere all’articolo 49.3 della Costituzione francese, che permette di approvare una proposta di legge senza il voto del parlamento. Una misura di cui il governo Borne abusa non avendo la maggioranza assoluta. Ma quella di appellarsi al 49.3 per ratificare una riforma così importante e delicata è stata una chiara scelta politica antidemocratica. Una vera e propria forzatura autoritaria. Oltre agli scioperi e alle manifestazioni, i sondaggi indicano infatti che il 70% dei francesi e il 90% dei lavoratori attivi siano contrari alla nuova legge. Macron e il suo governo hanno quindi gettato consapevolmente benzina sul fuoco, pronti a diventare ancora più impopolari.
Giovedì 16 marzo è stata una data importante, che ha cambiato l’attitudine del movimento sociale. Il fronte intersindacale è rimasto unito e compatto e ha continuato mobilitazione e scioperi. Alla “violenza” politica del ricorso all’articolo 49.3 è seguito un aumento della conflittualità per le strade. Sono cominciati a circolare appelli su internet e sui social network per ritrovarsi la sera stessa a place de la Concorde, dalle 18 in poi. Una manifestazione spontanea e non organizzata dai sindacati. E la cosa si è reiterata nei giorni successivi. È stato l’inizio delle manifestazioni “selvagge” a Parigi e in altre grandi città e del maggiore coinvolgimento di giovani e studenti nella mobilitazione. Nel frattempo una mozione di sfiducia è stata presentata venerdì 17 marzo e votata dopo pochi giorni, lunedì 20. Non è passata per soli nove voti. A partire da quel momento la legittimità politica e democratica di Macron e del governo minoritario guidato da Borne è appesa a un filo.
Giovedì 23 marzo, secondo i sindacati, sono scesi in piazza tre milioni e mezzo di manifestanti in tutta la Francia. Finora il livello più alto di partecipazione. Gli studenti liceali e universitari hanno bloccato moltissimi licei e università e hanno sfilato massivamente nelle manifestazioni. Una forma di solidarietà tra generazioni. I giovani precari hanno capito che in realtà sono loro le prime vittime del provvedimento. Si sono intensificati gli scontri, c’è stata una maggiore conflittualità nella testa del corteo ed è aumentata anche la repressione poliziesca, che ha cercato in tutti i modi di separare la testa dal resto del corteo sindacale. C’è stato un uso copioso di gas lacrimogeni e arresti, spesso immotivati, di persone innocenti.
Martedì 28 marzo è stata la decima giornata di sciopero e di manifestazione nazionale. Sempre secondo i sindacati avrebbero manifestato due milioni di persone. Certo la partecipazione è in calo, infatti il fronte intersindacale ha convocato il prossimo sciopero e manifestazione per giovedì 6 aprile. Le persone iniziano a fare fatica a scioperare, perché cominciano a essere a corto di soldi. Le caisses de grève non bastano più. Così la partecipazione si affievolisce spontaneamente.
Possibili evoluzioni future
Però la partecipazione in calo non significa una diminuzione della rabbia e un maggior consenso sociale alla riforma. Macron resta isolato e impopolare, ma sembra deciso ad andare fino in fondo e a governare contro il suo popolo. D’altronde le istituzioni francesi sono forti e solide, reggono. E lo sostengono pienamente. Macron gioca la carta dello sfinimento, insieme a una buona dose di repressione poliziesca. Cerca di far marcire la situazione, scommette sulla stanchezza, la fatica e la rassegnazione degli scioperanti e dei manifestanti sul medio-lungo termine.
Non c’è spazio per nessun compromesso socialdemocratico con i sindacati perché Macron non vuole concedere nulla. Per cui anche i sindacati riformisti come la CFDT e i partiti moderati come il PS sono in difficoltà. La CFDT ha aperto alle negoziazioni per trovare una mediazione, una soluzione di compromesso, ma esige come condizione preliminare l’eliminazione dell’articolo 7 della riforma, quello che innalza l’età pensionabile da 62 a 64 anni. Macron e il governo guidato da Borne restano sordi. È in atto una polarizzazione dello scontro: la riforma sarà interamente approvata o del tutto ritirata. Tutto o niente. C’è ancora la possibilità che la riforma sia bloccata dal Consiglio Costituzionale, per questioni procedurali di forma non di contenuto. Al momento non è dato sapere il grado di probabilità di un tale scenario. La decisione dovrebbe arrivare entro il 21 aprile.
Per quanto riguarda il futuro della mobilitazione, molto dipenderà da come si posizionerà la CGT nelle prossime settimane e nei mesi a venire. Il sindacato storico e di riferimento della sinistra francese, legato in passato al partito comunista e a lungo primo sindacato in Francia. La CGT è appena uscita da un congresso difficile, complicato e a tratti burrascoso, perché era divisa al proprio interno da disaccordi strategici sulla linea da tenere. Il congresso ha però ravvivato la democrazia interna, il dibattito, il confronto e lo scontro. Il segretario uscente Philippe Martinez ha impresso unilateralmente negli ultimi mesi una svolta riformista, centrata sul dialogo con la CFDT per creare un fronte intersindacale unito e compatto. Cosa in sé assolutamente positiva e benvenuta. Ma una parte del sindacato temeva non del tutto a torto una svolta moderata e una subordinazione alla CFDT e all’agenda del governo, soprattutto le basi sindacali e le sezioni locali più influenzate dalla combattività dei Gilets Jaunes.
La CFDT, infatti, è stata costretta quasi suo malgrado a scegliere la via del fronte intersindacale, degli scioperi e delle proteste di piazza, data l’intransigenza estremista del governo e l’assenza di margini possibili di negoziazione per instaurare un clima di dialogo sociale. In passato si è sempre seduta al tavolo delle trattative, accettando compromessi al ribasso per limitare i danni e ingoiando pillole amare. C’è il rischio che anche stavolta ceda sul lungo periodo e accetti negoziazioni da una posizione di debolezza, subordinata alla linea politica di Macron. È un sindacato corporativo a carattere gestionale e tecnico-amministrativo. Non di lotta e di difesa universale degli interessi dei lavoratori francese. Questo storicamente è sempre stato il ruolo della CGT, che però è in crisi e in perdita di iscritti (storicamente già più bassi in Francia che in Italia). Dal 2017 è stato sorpassato dalla CFDT in numero di aderenti nel privato.
La scelta del successore di Martinez è stata anche e soprattutto quella dell’orientamento politico futuro. Da un lato un pragmatismo socialdemocratico aperto al dialogo intersindacale e con la CFDT, che prendeva in conto le questioni ecologica, antirazzista e femminista. E dall’altro lato un radicalismo più combattivo e conflittuale ma anche più chiuso e identitario, meno incline al dialogo con la CFDT e più orientato a continuare scioperi, lotte e manifestazioni.
Il sindacato è riuscito a non spaccarsi e ha avuto l’intelligenza di trovare un compromesso sul nome e sulla linea politica tra le due ali in cui è diviso. È un’ottima notizia per il movimento sociale e per le lotte francesi. Per la prima volta nella sua storia è stata eletta una donna come segretaria, Sophie Binet. Femminista, figura della sinistra socialista, animatrice da giovane delle lotte contro il CPE (Contrat Premier Emploi, contratto di primo impiego) nel 2005 e della petizione On vaut mieux que ça, che nel 2016 ha lanciato l’opposizione e il movimento sociale contro la loi Travail. Come donne erano le responsabili e candidate delle altre due mozioni che si opponevano. Forse la cosa ha aiutato a non spaccarsi, dividersi e autodistruggersi, come è successo spesso in passato a sinistra nel caso di disaccordi strategici. Ed è un segno di apertura della CGT verso altre questioni oltre a quella sociale: femminista, ma anche ecologica e antirazzista. L’intersezionalità contro chiusure identitarie. E soprattutto si è trovato forse un buon compromesso tra pragmatismo e radicalità, per non cadere né nel servilismo e nella subordinazione a Macron da un lato, né nell’estremismo velleitario dall’altro. Sophie Binet guiderà una segreteria collegiale, pluralista ed eterogenea e promette una gestione collettiva e democratica del sindacato.
Un paese ingovernabile?
Comunque si evolva la situazione, la prospettiva è quella di un paese ingovernabile, attraversato costantemente da movimenti sociali, manifestazioni e scioperi continui. Un paese in piena crisi sociale ma anche democratica, politica e istituzionale. Non sappiamo se Macron riuscirà o fallirà nella sua forzatura autoritaria e antidemocratica, né se il governo guidato da Borne avrà vita breve o lunga e nemmeno se Macron sarà costretto a sciogliere il parlamento e a convocare nuove elezioni legislative. E neppure come usciranno da questo duro scontro le istituzioni politiche e la società francese. Quel che è certo è l’enorme dimostrazione di forza, di vitalità e di contropotere da parte della società. La sua aspirazione a un rinnovamento democratico, politico e istituzionale. Dall’alto c’è una spinta verticale, autoritaria e antidemocratica. Dal basso soffia un vento di democrazia sociale. Però bisogna vedere quali potrebbero essere le conseguenze di un’eventuale sconfitta netta e bruciante, nel caso in cui il movimento non riesca a portare a casa alcun risultato. Non si può nemmeno escludere a priori il rischio di un riflusso reazionario che provi a contrastare questo vento di democrazia sociale. Nei casi estremi la borghesia liberale non esita mai ad allearsi con l’estrema destra nazionalista per restare al potere come classe dominante.