Iran, voglia di cambiamento. Da un viaggio a Tehran

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Tehran, giugno 2023. Foto di Emanuele Valenti

Ero già stato in Iran in passato. Nonostante i limiti imposti a un giornalista straniero avevo già avuto modo di avvicinarmi a questo paese, di provare a conoscerlo, di tentare di dare risposte a interrogativi e curiosità.

Eppure anche questa volta, prima di arrivare a Tehran, continuavo ad avere in testa un paese lontano, diverso, con pochi punti di contatto con noi europei. Le immagini che mi ero portato dietro dagli altri viaggi non facevano altro che consolidare questo mio processo mentale: le donne con il capo coperto, la costante separazione degli spazi per le donne da quelli per gli uomini, i ripetuti commenti a voce molto bassa sulla situazione politica con riferimenti indiretti a un sistema che molti non gradivano ma che nessuno si avventurava a nominare. Tutto questo non è sparito. Una volta a destinazione non mi sono trovato di fronte a una situazione completamente diversa. Ma qualcosa è cambiato. È come se alcune di quelle immagini, spesso ritratto di una rigidità – almeno dal nostro punto di vista – si fossero messe in movimento. Ho avuto la sensazione di un paese e di una società con grande voglia di cambiamento, non sempre e non necessariamente cambiamento politico, ma comunque cambiamento.

L’esempio più chiaro, almeno per quello che ho percepito io, arriva dalla condizione delle donne. Nei mesi che hanno preceduto il mio viaggio, lo scorso giugno, l’Iran era stato attraversato da una profonda mobilitazione – probabilmente la più importante nella storia della Repubblica Islamica – per la morte di Mahsa Amini dopo l’arresto da parte della polizia morale perché non indossava correttamente il velo. Le proteste hanno interessato tutto il paese, soprattutto le grandi città ma non solo. In ogni regione sono state portate in piazza anche molte rivendicazioni locali, ma la questione femminile non è mai mancata, ha fatto da collante. Da questo punto di vista le donne iraniane – come insegna la storia di Mahsa Amini spesso in una posizione di sfavore – sono quelle che dalla sua nascita (1979) hanno messo maggiormente in difficoltà il regime.

Tehran, giugno 2023. Foto di Emanuele Valenti

Per le strade di Tehran, almeno in alcune zone, quasi la metà delle donne non ha più il capo coperto. Non solo le più giovani e non solo nei quartieri più ricchi – tradizionalmente meno legati agli ambienti religiosi e in costante contatto con l’esterno. Nelle grandi città non usare più il velo, o non usarlo nella maggior parte dei contesti, è sempre più comune. Nei luoghi pubblici, come in scuole e università, non è semplicissimo, ma la solidarietà sta facendo molto. Dei giovani che frequentano la scuola superiore mi hanno raccontato per esempio che di fronte a rimproveri e punizioni nei confronti di una singola studentessa intere classi sono uscite dall’aula. Nelle università invece alcune docenti si sono rifiutate di segnalare le assenze – che secondo il sistema vogliono dire partecipazione alle manifestazioni anti-governative – oppure le studentesse che seguono le lezioni a capo scoperto. Scendere in piazza, partecipare a manifestazioni, prendere parte a sit-in, richiede poi ancora più coraggio e la forza di assumersi dei rischi, fino all’ultimo. Alcune donne mi hanno spiegato che in occasione della loro prima manifestazione hanno consegnato a un’amica o a un parente di fiducia il loro testamento. Il rischio può essere anche quello di non tornare più a casa. A volte la voglia di alzare la voce è più forte della paura di morire.

Prevedere fino a che punto si spingerà questa voglia di cambiamento è impossibile. Di sicuro, sulla base di quello che mi hanno raccontato molti iraniani, la rabbia e la voglia di qualcosa di nuovo non erano mai stati così forti e così diffusi. Con un elemento in più rispetto alle mobilitazioni degli ultimi anni, la centralità dei giovani. Le proteste cominciate nel settembre del 2022 sono state guidate sì dalle donne ma anche dalle donne più giovani. In sostanza sono state le proteste delle nuove generazioni, che come mi ha spiegato l’attrice Fatameh Motamed-Aria – una delle voci “pubbliche” più critiche con il governo – non hanno alcuna propensione alla mediazione e al dialogo, come era stato in passato, in occasione di altri momenti di protesta. I giovani iraniani di oggi, almeno quelli che hanno partecipato alle mobilitazioni, vogliono uno strappo, un cambio di regime. Fonti diplomatiche occidentali a Tehran mi hanno detto che un cambio di regime non è al momento ipotizzabile, ma hanno aggiunto che qualcosa dovrà sicuramente cambiare.

Murales a Tehran. Foto di Emanuele Valenti

Mi è rimasta una frase, che dà il senso delle difficoltà che gli iraniani incontrano nell’inseguire un cambiamento. “Sulla base delle persone che ci troviamo di fronte – mi ha raccontato una ragazza fuori Tehran – siamo costretti a indossare ogni volta una maschera diversa”. Ecco, ho avuto la sensazione che il sogno di molti iraniani sia quello di non indossare più alcuna maschera.

C’è poi un’ultima questione che mi ha fatto riflettere molto, prima e dopo il viaggio. Una questione che riguarda il ruolo degli operatori dell’informazione. Si può riassumere con una domanda: è giusto andare in un paese dove la libertà di movimento è limitata e dove non si può parlare con tutti? Viaggiare in Iran e accettare di non superare delle linee rosse non rischia di legittimare un governo che limita in maniera importante le libertà dei propri cittadini? La risposta è maturata nel corso del tempo. Prima di partire avevo dei dubbi, perché sapevo che questa volta anche per me le limitazioni sarebbero state maggiori. Alla fine invece sono stato contento di essere partito. Incontrare le persone, leggere a volte anche solo nei loro occhi, raccogliere punti di vista diversi, provare a muoversi con la dovuta attenzione lungo quelle linee rosse, tutto questo mi ha restituito sensazioni, pensieri e ragionamenti. La mia mente si è messa in movimento e ha trovato qualche risposta. Solo così sono riuscito a mia volta a informare e a dare elementi di comprensione al pubblico. Se c’è un minimo margine di manovra – lezione per il futuro – il giornalista deve sempre provare a muoversi.