Novembre 1942. La svolta. Quando la narrativa fa storiografia

0
326
Bombardamento della RAF su Colonia. Ph: Royal Air Force/Wikimedia Commons

Sappiamo tutti che esiste una Storia con la S maiuscola, quella delle grandi battaglie, dei trattati di pace, dei giochi sullo scacchiere mondiale. Ma si dimentica spesso che questa è solo una rappresentazione astratta della storia minore, quella drammaticamente concreta nel quotidiano – e nell’esistenza delle persone, che viene stravolta magari per decenni quando non per sempre.

E così Peter Englund, nel suo libro La Svolta, sceglie di raccontare il momento in cui cambiarono le sorti della Seconda guerra mondiale, quei 30 giorni del novembre 1942, ricucendo tra loro i diari di oltre 30 testimoni diretti di quegli eventi. Trenta narratori che diventano inconsapevoli storiografi, perché il quadro che emerge dalle loro penne è incredibilmente coerente e avvincente, nonostante le diverse estrazioni e le grandi distanze geografiche che li separano. 

Tra di loro vi sono celebri scrittori e intellettuali, come Albert Camus, Vera Brittain, Vera Inber, Ernst Jünger, ma anche tante persone comuni, civili e militari, dalla casalinga inglese al capitano della marina giapponese impegnato a combattere in pieno Pacifico. Englund motiva la sua scelta spiegando come una guerra mondiale sia per sua natura un evento talmente complesso e contraddittorio, nelle sue infinite componenti, da risultare sempre sfuggevole ai nostri tentativi di inquadrarlo, incasellarlo, comprenderlo. Ritiene pertanto essenziale dare la parola a quanti hanno vissuto quegli anni sulla propria pelle, e lo fa in punta di piedi, con grande rispetto per il calvario che l’esistenza ha inflitto loro – e che si sono presi la pena di raccontarci.

E così, ecco che il soldato semplice tedesco Willy Peter Leese, sprofondato nel fango di una trincea nell’immensità della Russia europea, ci ricorda come anche il secondo conflitto mondiale, e non solo il primo, abbia significato una guerra di trincea. Milioni di civili reclutati in fretta e furia si ritrovarono a vivere per mesi nella palta e al gelo:

Completamente zuppi. I pantaloni, il cappotto, il pane, tutto è fradicio e minacciato dalla muffa. A ogni passo gli stivali affondano, non appena lui e gli altri tentano di muoversi “come funamboli” in quella trincea fangosa. (Englund, La Svolta, p. 28)

Ma non occorre essere in trincea tra foreste e steppe del fronte russo per sentirsi in guerra. Oltreoceano, a diecimila chilometri di distanza sulla costa atlantica americana, a Savannah dove venivano costruite le navi da guerra Liberty, in un’economia bellica ecco che vita cittadina e società sono completamente stravolte. Si vive nel coprifuoco, perché persino negli USA i porti sono esposti agli attacchi dei sommergibili tedeschi. Ma mentre la città vive immersa in un buio pesto sopportato a fatica, il cantiere navale sorto a tempo di record

è illuminato a giorno dai riflettori e da una moltitudine di piccoli punti luminosi bluastri, le centinaia di saldatori all’acetilene in funzione. Lì il lavoro non si ferma mai, giorno e notte, feriali e festivi, settimana dopo settimana, in tre turni … Tutti sanno qual è la posta in gioco (le chiazze d’olio, i rottami, i cadaveri che il mare continua a restituire sulle spiagge di Savannah, dopo tutti gli affondamenti della primavera, ne sono la prova) (Englund, cit., p. 63)

Gelo, fango, bombe, malattie. Un incubo nelle zone di fronte ma anche in tante grandi città e metropoli assediate per anni a fila, come a Leningrado di cui ci dà testimonianza nel suo diario la saggista e critica letteraria Lidija Ginzburg, quella stessa Leningrado delle notti bianche estive che sono ormai solo un ricordo. Lei sa perfettamente 

… che li attende il secondo inverno sotto assedio. (Nessuno, prima di allora avrebbe mai neppure osato immaginarlo) … una prospettiva del genere è deprimente.

A Leningrado, più che un assedio, è stato messo in atto un genocidio: Hitler ha deciso che un’intera grande metropoli deve morire di fame e di stenti. In quel primo, spaventoso inverno, nel momento peggiore

erano morte circa centomila persone al mese. Allora il “vivere civile” era stato sul punto di collassare, non funzionava più nulla, c’era chi uccideva per un po’ di cibo così da impossessarsi della tessera di razionamento di qualcun altro … le vie erano una distesa indistinta di ghiaccio e rifiuti con morti e moribondi abbandonati sul marciapiede, sotto lo sguardo indifferente dei passanti. (Englund, cit. pp. 69-70)

Anche in climi ben più caldi, anche senza essere assediati al gelo dai nazisti da due anni, la guerra ti stringe come una morsa che non ti lascia scampo. Come a Genova, nella notte del 15 novembre 1942, che per l’ennesima volta si trova sotto una pioggia di bombe. Vengono colpiti non solo il porto, ma anche quartieri residenziali, chiese, palazzi, monumenti. È una politica deliberata, quella della RAF: accanirsi contro le grandi città del Nord Italia così da spingere le borghesie esasperate a ribellarsi al regime fascista e alla sua ostinazione a rimanere in guerra. Rispetto alle città tedesche

si tratta di obiettivi facili, non del tutto indifesi, ma quasi. L’oscuramento a terra è approssimativo, non ci sono radar, i caccia notturni e i riflettori sono pochi, la contraerea è ridotta all’osso – tanto che quando i bombardieri iniziano a sganciare gli ordigni i cannoni smettono di sparare. (Englund, cit., p. 344)

La guerra stravolge tutto, ribalta tutto. Anche quelli che per noi in epoche di pace e di benessere sono paradisi tropicali, fatti di atolli corallini, spiagge candide e vegetazione lussureggiante, improvvisamente sono deformati dalla Storia in un inferno. Un girone dei dannati in pieno Pacifico in cui australiani e americani, che magari sino a qualche settimana prima facevano il meccanico o il boscaiolo, si ritrovano catapultati come alieni a fronteggiare un nemico altrettanto alieno e pronto a tutto: i giapponesi.

… in quell’isola tropicale del Pacifico Meridionale rivestita di foreste pluviali. È come se si trovassero su un altro pianeta.

Sono sopraffatti da tutti quei nuovi stimoli, soprattutto dagli odori. La foresta pluviale sa di troppo sole, di vegetazione umida, di acqua stagnante verdognola, di muffa, di marcio. Per sopravvivere, hanno imparato ben presto ad affinare i sensi – la vista e l’udito, certo, ma anche l’olfatto. Nel buio pesto della notte, o nel verde acceso dell’erba di cotone fitta, a volte si riesce a fiutare la vicinanza dei soldati giapponesi perché i loro equipaggiamenti nuovi in cuoio emanano un sentore dolciastro. (Englund, cit., p. 40-41)

In guerra tutto è stravolto, tutto è deformato anche lontano dal fronte, senza bombe che ti piovono dal cielo, in una città placida e imperturbabile come Bruxelles. L’occupazione nazista del Belgio parte in sordina, ma si inasprisce sempre più. Ce ne dà testimonianza Anne Somerhausen, impiegata in una ditta tedesca perché, con il marito prigioniero in Germania di cui non sa nulla, è costretta a lavorare per sfamare i suoi figli. Non senza un grosso rovello etico, al quale lei stessa risponde così:

Lavorare vuol dire fare il gioco dei tedeschi, ma l’alternativa è la fame. Questo è il dilemma davanti al quale ci troviamo e la soluzione è solo una: lavorare e sabotare. Diverrà pane quotidiano, sempre più. (Englund, cit. p. 209)

A Bruxelles si respira un’aria sempre più sinistra: ormai qualunque belga, come cittadino di un paese occupato, rischia di vedersi deportato in Germania a lavorare in regime di schiavitù nell’industria bellica tedesca. Anne segue gli eventi col fiato sospeso, esulta per lo sbarco alleato in Nordafrica dell’8 novembre, trae speranza dalla disfatta di italiani e tedeschi a El Alamein e non smette di interrogarsi, di cercare di capire la geopolitica in cui è immersa come in un frullatore, di sperare:

Che cosa trattiene i tedeschi dal proporre una tregua? E’ evidente che non sono più in posizione di forza. Sono sulla difensiva. Sono condannati. (Englund, cit., p.210)

Da un tritacarne del genere tutti vorremmo fuggire, evadere, andarcene il più lontano possibile. Come Vittorio Vallicella e i suoi commilitoni che, dopo la disfatta di El Alamein e lo sbando dell’esercito italiano, per settimane  vagano nel deserto verso ovest a bordo di una camionetta, tra cieli stellati e furibonde tempeste di sabbia 

ancora soli e liberi, campando di ciò che trovano, di furti ed effrazioni … ma la sensazione che il tempo stia per scadere è sempre più tangibile. Si sono lasciati alle spalle il caos. Si sta ristabilendo un ordine, prima o poi verranno scoperti e reintegrati nell’esercito. (Englund, cit. p. 396)

Tra di loro c’è chi inizia a ventilare l’ipotesi di trovare un reparto dell’esercito e di presentarsi spontaneamente, ma gli altri non ne vogliono sapere: di guerra ne abbiamo fatta abbastanza, sentenzia Vallicella. 

Come dargli torto. In questa mia carrellata, per forza di cose sintetica, non ho avuto modo di soffermarmi su altri protagonisti del grandioso affresco dipinto pazientemente da Englund. Non ho avuto modo di parlare di Sophie Scholl, giustiziata insieme al fratello per la grave colpa di aver dato vita alla Rosa Bianca, gruppo di opposizione non violenta al nazismo. Non ho potuto parlare di Chil Rajchman, riuscito a fuggire dal campo di sterminio di Treblinka, ad arruolarsi nella resistenza polacca e a rifarsi una lunga vita in Uruguay. Non ho potuto parlare di Hélène Berr, diligente e brillante studentessa universitaria, massacrata con tutta la famiglia perché ebrea malgrado avesse nutrito l’illusione che seguendo tutte le consegne e le restrizioni, e prendendo sul serio tutti i divieti più assurdi, ci si potesse salvare dalla follia sanguinaria della Shoah. Non vorrei fare un torto a tutti costoro e al loro sacrificio estremo.

Però mi sono sforzato di dimostrare una cosa. Forse banale, eppure un po’ troppo dimenticata: ogni guerra è sempre e comunque un male, da evitare a ogni costo, perché devasta tutto, perché fa a pezzi tutto. Il libro di Englund ci richiama all’ordine e ci ricorda questa verità evidente, che oggi passa un po’ troppo spesso in secondo piano. Non solo perché stanno man mano scomparendo gli ultimi testimoni diretti. Ma anche perché oggi, nell’era mediatica, c’è il rischio che dei conflitti passi una lettura spettacolarizzata che finirebbe paradossalmente per minimizzarli. E invece no. Qui non ci sono megaschermi, qui non ci sono effetti speciali. Solo drammi, tragedie che devastano le esistenze di miliardi di persone per decenni, quando non per sempre, come ho scritto all’inizio di questo articolo e come tengo a ribadire anche in conclusione.

Cerchiamo di non dimenticarcene.

Fonti:

Peter Englund, La Svolta. Novembre 1942, i giorni che cambiarono il destino del mondo, Marsilio, Venezia 2022.

L’autore: Peter Englund, storico e saggista, è membro dell’Accademia di Svezia che ogni anno assegna il Premio Nobel per la letteratura. Autore di una lunga serie di saggi storici, tra cui uno sulla Prima guerra mondiale, tradotto in italiano con il titolo La bellezza e l’orrore. La Grande Guerra narrata in diciannove destini (Torino, Einaudi 2012).