Conversazioni sull’intelligenza artificiale – Parte 2

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Il secondo appuntamento con il Prof. Hellmut Riediger, linguista, germanista, traduttore, esperto e docente di traduzione “umana e automatica” alla Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli, ci ha permesso di approfondire i risvolti dell’intelligenza artificiale nell’ambito della traduzione.

Nel mondo della traduzione come stanno cambiando le cose?

Le evoluzioni sono state addirittura più precoci e hanno anticipato quello che sta succedendo in altri ambiti dopo l’avvento di ChatGpt e gli altri sistemi di IA generativa. Il mondo della traduzione è stato per molti versi rivoluzionato, nel senso che la figura del traduttore come era dieci anni fa si è praticamente estinta.

Oggi chi si occupa di traduzione fa tante cose. Innanzitutto fa il post editing. In pratica significa correggere traduzioni pretradotte dal sistema (di qualità più o meno elevata) e questo tipo di professionalità è emersa già prima che entrasse in uso la traduzione neurale automatica (cioè basata sull’IA) attorno al 2016, con sistemi come Google Translate e poi DeepL. I nuovi sistemi di IA generativa permettono ora di affinare ulteriormente certi passaggi, perché si può chiedere a ChatGPT di tradurre il testo in modo più accurato. Per esempio, si può impostare il tipo di registro, adattare il testo a un pubblico specifico, dare un taglio più divulgativo o più specialistico al proprio contenuto. Grazie a quella che, per semplificare, chiamiamo genericamente “intelligenza artificiale”, il traduttore o la traduttrice svolge una traduzione interlinguistica che cambia registro o si adatta a situazioni particolari. D’altra parte, sapere per chi stai traducendo e quale è lo scopo è ciò che caratterizza qualsiasi incarico di traduzione professionale. 

Si potrebbe pensare che l’intelligenza artificiale abbia reso il lavoro più noioso e meno creativo?

Questo è tutto da vedere. Per certi versi ha tolto il lavoro di fatica, quindi dipende. Tradurre non è sempre idilliaco. Sfatiamo l’idea che sia bello e piacevole tradurre qualsiasi cosa per cui ci si immagina la figura del traduttore in estasi perenne. Ci sono testi stimolanti che ti gratificano, ma c’è anche un lavoro di manovalanza che è noioso di per sé. Se devi tradurre cinquanta pagine di testo, dense di parti piatte e ripetitive la macchina ti può sgravare. Vediamolo in positivo: può permetterti di concentrarti sulle parti che effettivamente richiedono spirito creativo e originalità. Naturalmente occorre tenere presente la complessità del lavoro nel suo insieme e osservare la situazione da punti di vista diversi.

C’è poi chi vede dietro l’angolo il rischio di appiattirsi sulla macchina, cioè la tendenza ad accettare i risultati che propone invece che escogitare alternative, ma questo succede anche quando revisioniamo testi scritti da altri: se la cosa sta in piedi la prendiamo per buona, altrimenti ci mettiamo d’impegno e, talvolta, a mali estremi, estremi rimedi. Ci troviamo a riscrivere tutto da capo. In altri casi invece non si può fare molto perché il tipo di testo non si presta a interpretazioni, non ci sono sfumature da cogliere, anzi se è molto tecnico richiede precisione e rigore. La bravura di chi traduce consiste anche nella capacità di identificare le categorie e il tipo di comunicazione, ovvero quei testi che, effettivamente, le macchine non sono in grado di gestire. Occorre avere sensibilità e preparazione.

Mi viene da dire che sia la traduzione automatica neurale sia i sistemi di IA generativa è come se guardassero sempre al passato, mi riferisco al fatto che sono addestrati con dati inseriti da esseri umani, dunque l’elemento umano non è che non ci sia. Più le macchine hanno dati, cioè testi scritti o tradotti da essere umani, e più hanno materiale su cui imparare. Quando inseriamo un testo, il sistema formula ipotesi basate su probabilità statistiche, aggrega i dati che ha a disposizione e fornisce dei risultati. Per concludere, si basa su uno storico di dati sui quali c’è un po’ di esperienza. Su aspetti o temi innovativi, di cui nessuno ha mai parlato, è evidente che il discorso è un diverso. In questi casi, anziché fornirti un risultato preconfezionato quasi pronto per l’uso, l’intelligenza artificiale può dare  forse qualche ispirazione, ma in modo più o meno casuale. Per esempio, inserendo un quesito in cinque macchine diverse, può capitare che quattro risultati siano completamente da scartare e che uno offra una soluzione utile. È un po’ come giocare a dadi e tutto sta anche alla bravura di chi interagisce con questi strumenti. L’abilità di cogliere elementi utili e metterli insieme richiede lo sviluppo di nuove competenze.

Quali sono gli altri cambiamenti in atto?

Molti operatori del settore linguistico e della traduzione affermano che il loro ruolo sta mutando: da fornitori di servizi di traduzione  a consulenti per la comunicazione multilingue. Ad esempio, un’azienda che deve fare un sito in cinque lingue ha bisogno di una figura che sia in grado di scegliere, valutare e infine consigliare quali strumenti utilizzare. Il consulente diventa quindi un progettista linguistico che decide quali strade proporre o perseguire, è una professionalità sempre più richiesta, per non dire imprescindibile. A proposito della lingua inglese dicevamo che è diventata una materia di studio in tutte le scuole di ogni ordine e grado non perché tutti vogliono diventare traduttori o interpreti di inglese, ma perché fa parte degli attrezzi del mestiere. Così come sapere un po’ di inglese è utile e necessario per tutti, oltre a essere una forma di accrescimento personale, sta diventando necessario per molti, non solo dei professionisti delle lingue e della traduzione, avere nozioni di base su come funzionano i sistemi di traduzione automatica neurale e di IA generativa, e come usarli per esigenze linguistico-traduttive. 

La machine translation literacy sta quindi diventando una competenza per tanti lavori, in prospettiva insegnare i rudimenti a chi non fa il traduttore di mestiere ma che nella propria vita lavorativa ha a che fare con la stesura di testi in più lingue è una nuova forma di alfabetizzazione. Penso per esempio a giornalisti o a chi scrive paper nel mondo accademico. Molti scrivono nella loro lingua e poi traducono con sistemi di intelligenza artificiale (spesso e volentieri solo in inglese), ma non sempre se hanno le conoscenze sufficienti per correggere in modo adeguato. Può darsi che prendano qualche cantonata se non stanno attenti. Gli studi legali e tante altre fattispecie che magari una volta avrebbero dato questi incarichi a traduttori esterni e che pensano di risolversela in caso, se non stanno attenti rischiano brutte figure, diciamo così.  

Magari questo avviene nelle aziende per tradurre, ad esempio, manuali tecnici, applicando una logica del risparmio a discapito della qualità? 

Sì, però dipende sempre dai contesti. A volte nella comunicazione questo può anche funzionare: se è un volantino che dura un giorno e lì si esaurisce il suo scopo, l’importante è che io sappia chi, che cosa, dove, come e quando. Tutto il resto non è essenziale, ma se le informazioni vanno sulla home page di un’azienda e devono restarci per anni, caratterizzando e descrivendo un brand, allora la faccenda diventa seria. Queste cose vanno capite e discriminate.

Diciamo che questi sono alcuni trend, quello su cui insisto anch’io, soprattutto in università, è la formazione. Cambia un po’ il ruolo, se parliamo dei professionisti nel campo delle lingue. I traduttori sono tradizionalmente abituati a essere in attesa di un incarico, per poi eseguirlo e, infine, restituirlo. Questo atteggiamento che definirei esecutivo, a basso rischio, per cui ci si attiene strettamente alle indicazioni di quello che può essere il committente o l’editore sta cambiando. Il ruolo può essere più attivo, tu ragioni su cosa funziona o non funziona e su cosa si potrebbe fare. Chi si sta formando per avere questo genere di competenza avrà più chance. Inoltre, c’è un altro aspetto importante che è la gestione dei dati linguistici: ordinare e raccogliere testi che riguardano certi argomenti, saperli valutare, verificarne la qualità o saperli annotare per inserirli per addestrare i vari sistemi basati sull’IA è un nuovo sbocco professionale. Non dimentichiamo che le macchine hanno una grande fame di persone con elevate competenze linguistiche, sia le big tech sia realtà più piccole che iniziano a sviluppare piccoli motori specializzati, dedicati a una traduzione automatica settoriale.

Può essere il caso di una azienda che si fa il suo bot addestrato su misura per una specifica esigenza di traduzione?

Questo è un tema attuale. Cinque anni fa non se ne parlava, mentre ora assistiamo a sviluppi sempre più rapidi che fanno pendant con l’evoluzione dei LLM. Per un’azienda mettere a punto un piccolo motore che, ad esempio, traduce bene un certo tipo di istruzioni tecniche, è una prassi che sarà sempre più consolidata, per cui conoscere la logica che sta dietro questi strumenti è una competenza che sarà molto richiesta sul mercato. Per avere un bagaglio teorico di base è sufficiente capire la logica con cui i dati entrano in un sistema e sono poi decodificati, con l’aggiunta di qualche nozione in più. Se le competenze linguistiche si associano a skill di programmazione, per gli umanisti vi saranno buone opportunità lavorative negli anni a venire.

Quindi una chiave di lettura rispetto all’intelligenza artificiale potrebbe essere quella di abbinare scienza e umanesimo?

Certamente questo eviterebbe alla cultura umanistica di essere sottomessa alla tecnica, perché se ci sarà mai una battaglia fra due fronti contrapposti la tecnologia rischia di fare la parte del leone. Insomma Google ha fagocitato tutta l’editoria del mondo con Google Books, OpenAI si nutre di libri in quantità enormi ed è in causa con molti autori ed editori americani per questioni di diritti d’autore. I giganti della tecnologia mettono a repentaglio la cultura umanistica, allora come si può ovviare a questo problema? È una sfida da affrontare cercando soluzioni creative, sarebbe comodo e semplice se ci fosse una formula pronta, ma non è così. La fatica consiste proprio nell’esplorare vie d’uscita e controbattere così all’egemonia della tecnica. 

Ci sono tipologie di testi che non si prestano a essere tradotti con gli strumenti che ha citato prima, come ad esempio la poesia?

Fino a qualche anno fa si diceva che coi sistemi automatici si potevano tradurre solo testi tecnici. Oggi per tradurre un saggio di medio livello si può pensare di affidare il compito a una macchina che fa una pre-traduzione sulla quale lavorare successivamente. Ma bisogna fare attenzione, la letteratura in particolare è un terreno spinoso. L’intelligenza artificiale è adatta per tradurre romanzetti gialli o romanzi di intrattenimento sulla falsariga degli Harmony, dal momento che si tratta di testi lineari e semplici. È sempre bene valutare caso per caso a seconda delle caratteristiche stilistiche, sapendo che le macchine lavorano bene quando c’è poca ambiguità. Ma c’è anche un altro aspetto che dobbiamo tenere presente, perché a volte la questione non riguarda il testo in se e per sé ma il destinatario o il pubblico di riferimento. Qui entra in gioco il ruolo del traduttore che deve riformulare un messaggio, o addirittura capovolgerlo, per questioni di adattamento culturale. Un altro ambito delicato, per esempio, particolare è quello legale, per ovvie esigenze di precisione e aderenza a un linguaggio molto specifico per il quale le macchine non sono (ancora) addestrate. 

Possiamo concludere dicendo che la situazione è in evoluzione e che un approccio umano è fortemente richiesto in molte situazioni. Mi viene in mente un’immagine simpatica, proposta dallo studioso della traduzione Anthony Pym che diceva: “Usa la traduzione automatica come l’asino: gli metti i sacchi sopra e lui va portando i pesi, mentre tu fai le cose che ti piacciono e che ti divertono”. In parte è ancora così e in parte le cose stanno cambiando. Poi ci sono questioni di tariffe. Come si pagano questi servizi? Chi ci guadagna alla fine? Sicuramente si può affermare che oggi in questo settore per emergere bisogna essere bravi, per i mediocri non c’è molto spazio perché la macchina li spazza via.

In università si fa qualcosa dal punto di vista della didattica?

Alla Civica Altiero Spinelli facciamo dei corsi in cui introduciamo questi temi, spingendo le persone a toccare con mano e sperimentare in modo critico. Dallo scorso ottobre, una volta al mese si svolge una riunione di coordinamento  dell’innovazione didattica in cui riflettiamo e ci confrontiamo con questi argomenti.

In generale, nelle università italiane la faccenda è poco considerata, però ad esempio alla statale mi hanno chiesto di fare dei corsi sulla machine translation. Proporre un seminario agli studenti è già qualcosa, però non so se in prospettiva sia sufficiente, servirà a ripensare in modo più radicale i propri contenuti e le proprie modalità didattiche.

O in modo più trasversale?

È necessario avere dei rudimenti, dopodiché come in tutte le cose ci sono applicazioni specifiche e occorre fare i conti con quelle. In questa fase il consiglio che posso dare a tutti è quello di fare esperimenti: svolgi un compito, scrivere o tradurre qualcosa per esempio, e poi lo fai fare anche la macchina. E poi lo guardi, lo osservi e ti rendi conto del risultato. Alla fine o ti metti a piangere, pensando di non servire a niente, oppure ti accorgi di sviluppare delle capacità grazie a questi sistemi di intelligenza generativa. Una delle abilità è quella di formulare domande giuste, fare un buon prompting. Questo implica conoscere anche la materia di cui stai parlando. In base a questo puoi ottenere risultati diversi, queste abilità sono in divenire: c’è chi è più predisposto e rende meglio e chi ha più difficoltà, ma intanto occorre sapere che questo problema c’è e quali sono le regole di fondo.

Le prime volte in cui mi sono cimentata con l’IA usavo i nuovi strumenti come la vecchia tecnologia, cioè come motori di ricerca o come database, ma non sono performanti in tal senso e bisogna capire come funzionano…

Per certi versi è un po’ da esplorare, puoi usare gli strumenti di IA generativa come strumento di apprendimento linguistico, per creare esercizi o come “pen friend” artificiale, ma anche come dizionari o viceversa come ausilio nella nostra vita quotidiana sia per i docenti che per gli studenti che devono scrivere dei compiti o altre attività. C’è chi fa già le tesi con questi metodi, magari non tutto. Per certe parti un po’ discorsive, per fare una introduzione generale su un certo tema mi fornisce quanto meno una traccia. Se la tesi è buona ci saranno altre parti originali, altrimenti vorrà dire che il mio tema non è così nuovo.

Toglie una parte di fatica e libera spazio per fare cose più creative?

Diciamo così. Sì. La mia illusione, soprattutto nel rapporto didattico con gli studenti, è di enfatizzare la fase di sperimentazione. Le soluzioni sono talmente tante che ognuno si può occupare di un filone, in modo tale da non fare tutti la stessa cosa. Poi ci si confronta su cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato.

Anche il docente più esperto non può sapere tutto, anzi sa una minuscola parte e questi territori sono ancora tutti da scoprire.