Rave party, un fenomeno controculturale

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ph: kajetansumila/unsplash

Cosa sono i rave? Come e quando nascono? Cosa c’è alla base di questo fenomeno? E per quale motivo va annoverato tra i movimenti della cultura underground?

Periodicamente l’espressione rave party torna sulle prime pagine dei giornali, sui social, nelle trasmissioni televisive. Solitamente si parla di rave party quando un raduno, per dimensioni o per vicende di cronaca, attira l’attenzione dei media. E nella maggior parte dei casi questo viene fatto con toni paternalistici oppure di rimprovero: giovani sbandati e drogati che ballano musica assordante fino al mattino. In realtà i rave party sono espressione di una vera e propria controcultura urbana, nata da vicissitudini storiche e sociali. Liquidarli con giudizi frettolosi è riduttivo e superficiale. 

Un po’ di storia

Se andiamo indietro nel tempo alla ricerca del primo antesignano dei rave party arriviamo prima al Festival di Woodstock del 1969 e poi alla prima edizione del Summer of Love di San Francisco, del 1967. Entrambi negli Stati Uniti. In realtà non è il genere musicale ad accomunare i raduni degli hippy a quelli dei raver, ma piuttosto la ricerca di uno spazio al di fuori della realtà e delle convenzioni, il raggiungimento di un senso di comunione tra persone con la stessa visione del mondo, la ricerca del massimo del piacere attraverso percezioni sensoriali. 

Il fenomeno rave esplode in Gran Bretagna negli anni ottanta, come reazione alle diseguaglianze sociali durante il governo di Margaret Thatcher. In quel periodo si diffondono forme di cultura alternativa e pratiche libertarie, come quelle degli squatter e dei traveller. I primi reagiscono all’abbassamento del tenore di vita delle classi disagiate occupando palazzi dismessi, i secondi rispondono al caro-affitti adottando una vita nomade a bordo di roulotte, camper o camion-case. Allo stesso tempo si comincia a sperimentare con la musica elettronica e iniziano a circolare sostanze psicoattive, come l’ecstasy, che hanno l’effetto di dilatare le percezioni sensoriali e di ritardare sonno e stanchezza. Si fa avanti la volontà, a volte proprio una necessità fisica, di ballare ben oltre l’orario di chiusura dei locali. È in questo contesto che si sviluppa la cultura dei rave: una rete di raduni illegali che durano giorni, tenuti in aree temporaneamente occupate e basati sull’incontro tra persone, musica, droghe, vite e viaggi. 

In Italia il fenomeno arriva con una decina d’anni di ritardo. I free party (altra denominazione dei rave) si diffondono negli anni Novanta, anche grazie all’arrivo di molti raver e dj britannici che si spostano verso il Sud Europa per sfuggire alla legge anti-rave del 1994 nel loro paese. I primi party sono organizzati “alla buona”, spesso non c’è neanche la consolle, sui dischi non c’è etichetta e non importa chi sia il dj. Non c’è un idolo da celebrare, importa solo stare insieme e ballare.

Come è fatto un rave?

Oggi, più o meno, i rave sono ancora così. Dimenticate i lustrini da discoteca. L’ambiente dei rave party è spoglio ed essenziale. L’arrivo della techno porta con sé un’estetica totalmente nuova, che rievoca scenari spesso definiti come post-apocalittici e cyberpunk. Generalmente i free party si tengono all’interno di capannoni industriali in disuso in aperta campagna. Dentro viene costruito il muro di casse che pompa techno senza pausa. Fuori si montano le tende, si parcheggiano i camper e si allestiscono bancarelle per la vendita di cibo, bevande e oggettistica varia. La stimolazione sonora è accompagnata spesso da quella visiva: luci colorate, videoproiezioni psichedeliche, installazioni e “sculture” realizzate con materiali di recupero (i cosiddetti mutoidi). Non si paga l’ingresso. 

ph: Aleksander Popov / Unsplash

Un altro aspetto interessante, che rientra perfettamente nella logica dell’occupazione, è quello della comunicazione. I rave non vengono sbandierati con annunci, manifesti o locandine ovunque. Si distribuiscono flyer negli ambienti giusti e la voce si fa circolare nei gruppi chiusi sui social o tramite radio pirata. Si comunica la zona ma non l’indirizzo esatto, che viene reso noto solo poche ore prima dell’inizio dell’evento: una strategia per evitare che arrivi la polizia a bloccare tutto ancora prima che cominci.

I rave party durano giorni e la musica non si interrompe mai. Si crea una dimensione parallela dove vengono scardinati tutti gli schemi della realtà, perfino quelli del sonno-veglia. Che piaccia o no, non si può negare che i rave siano una delle poche occasioni in cui si riesca a fare un’esperienza di libertà oltre l’ordinario. 

Filosofia rave: la ricerca di un altrove momentaneo

ph: Obie Fernandez / Unsplash

La libera espressione di sé è un elemento fondamentale della cultura rave, che raggiunge il suo apice proprio durante i free party. Il tutto nasce da una visione critica della realtà, dalla ricerca di una forma di evasione o addirittura di una realtà parallela, che i raver trovano nell’abbandonarsi completamente alla musica e alle percezioni sensoriali. Dopo ore trascorse “sottocassa” a ballare su un ritmo martellante in mezzo a luci e suoni psichedelici, tutto ciò che esiste appare modificato. Si raggiunge uno stato alterato di coscienza dove tutto è sovrastimolato: non sono solo le percezioni a essere amplificate, ma anche le emozioni e il senso di comunione con le altre persone che condividono quell’altrove momentaneo. Eppure, non proprio tutto si esaurisce nel giro di un party. Come dice l’autore del libro Rave in Italy in un’intervista a Vice: “Dopo una festa magari tornavi a casa alle quattro del pomeriggio, stringevi forti amicizie, aprivi la mente entrando in contatto con persone diverse da te. Iniziavi a riflettere con un’altra prospettiva sul lavoro, sulla società in cui vivevi. In un certo senso riuscivi a immaginare un futuro alternativo, a sfuggire all’alienazione, dopo che avevi espresso liberamente te stesso”. 

In quest’ottica si inserisce anche la pratica dell’appropriazione temporanea di spazi inutilizzati, teorizzata dal filosofo anarchico Hakim Bey nel saggio T.A.Z.: The Temporary Autonomous Zone. Per Bey e per i raver creare delle zone temporaneamente autonome è il modo più efficace per eludere le strutture formali della società. Sono zone autogestite in cui non esistono gerarchie e proibizionismo. Lo spirito dei rave party è essenzialmente quello di sentirsi liberi, alla pari e invisibili, dimenticare la realtà che sta fuori e scomparire dallo sguardo delle autorità e della società. 

Tuttavia non bisogna immaginare i rave come spazi dove regni il caos. Al contrario, si instaurano forme di auto-determinazione: nessun controllo gerarchico o esterno, ma solo autogestione e responsabilità verso se stessi e verso la comunità. Alla fine di un free party ben riuscito si collabora per raccogliere i rifiuti e ripulire ogni cosa, mentre i soggetti pericolosi vengono allontanati istintivamente dal gruppo. È una forma di “intelligenza collettiva” che funziona. I tassi di violenza dei free party sono sensibilmente più bassi di quelli dei club e delle discoteche.

Chi critica i rave party spesso si aggrappa all’idea di una perdizione debosciata, presente già nella parola che li identifica. Tra i significati della parola inglese “rave” c’è infatti anche “delirare”. Sul fronte opposto c’è invece chi vuole innalzare i rave a vero e proprio stendardo culturale, fino a tentare un’analogia con lo sciamanesimo e il culto dionisiaco, dove il dio greco veniva celebrato attraverso balli compulsivi al fine di raggiungere lo stato di ebbrezza e il superamento del proprio io individuale per fare emergere il proprio sé naturale. Nel mezzo, certamente più vicine a noi, le parole di Max Durante, dj iconico della scena rave italiana:  

“Rave vuol dire delirio, delirio emozionale, andare in estasi dal piacere, e non delirio inteso come caos!”

L’abuso di droga: un problema dei rave e non solo

Ai rave si consuma droga. È un dato di fatto. Come succede nelle discoteche, ad alcuni concerti e in qualsiasi luogo dove ci siano delle persone intenzionate a farlo. Questo ovviamente è l’argomento più controverso di tutta la questione. Ma proviamo a partire da due presupposti inconfutabili. Il primo: un rave senza droga non può esistere, dal momento che tutto in un rave è finalizzato all’esperienza indotta dalle sostanze stesse. Il secondo: il consumo di droga, per sua natura, comporta problemi, tanto che sono i raver stessi a volte a imputare la degenerazione della scena all’abuso di droghe. Cosa fare allora? 

A mio parare, la soluzione non può essere proibire e reprimere, visto che i rave nascono dall’istinto primordiale di sovvertire il sistema e creare degli spazi non proibizionistici. Qualsiasi tentativo di divieto non farebbe altro che far migrare le tribù del sound system da un’altra parte, come è successo nei paesi che hanno adottato leggi anti-rave. Una soluzione più realistica potrebbe essere quella di dotare i rave di presidi efficaci di riduzione del danno (un insieme di pratiche e strategie finalizzate a limitare gli effetti collaterali dell’abuso di sostanze stupefacenti). Un intervento che renderebbe i party più sicuri senza snaturarli, ma che sarebbe attuabile solo attraverso un dialogo collaborativo proprio con quelle istituzioni a cui si intende sottrarsi. 

Per approfondire: 

The Rave Party, podcast di Chora Media, disponibile gratuitamente su tutte le piattaforme audio

Tekno – il respiro del mostro, documentario di Andrea Zambelli, Italia, 2011, Rossofuoco

Muro di casse, romanzo di Vanni Santoni, Laterza, Bari, 2015

Dallo sciamano al raver. Saggio sulla transe, di Georges Lapassade, Jouvence, Milano, 2020

Fonti: 

Pablito el Drito, Rave in Italy, Agenzia X, Milano, 2018

Hakim Bey, T.A.Z. La Zona Autonoma Temporanea, Shake Edizioni, Milano 1993

http://www.tuttomondonews.it/oltre-la-coscienza-la-cultura-dei-rave/ 

https://www.inventati.org/donnola/materiali/rave.html

https://www.vice.com/it/article/nepnpk/rave-party-italia-oggi-pablito-drito-libro