La maschera africana

0
580
ph: Fabrizia Parini

Traduzione dell’articolo di Alice Corti, La masque africain, a cura di Fabrizia Parini

Spazio scenico e intervento sociale dalla prospettiva dell’Africa occidentale sono i temi esplorati nel corso del laboratorio teorico e pratico sulla maschera africana, organizzato il 22 e 23 aprile presso la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Durante queste due giornate, organizzate da Luca Fusi, professore di mimo e analisi del movimento, sono intervenuti gli scenografi burkinabé Sada Dao e Mahamoudou “Papa” Kouyaté. Quest’ultimo, figlio di Sotigui Kouyaté, attore nelle opere di Peter Brook, fa parte della famiglia Kouyaté la cui storia è fortemente legata all’eredità della tradizione orale africana dei griot.

Secondo la tradizione della società africana, l’uomo di teatro è colui che lavora con e per la comunità, per il benessere sociale e talvolta svolge anche il ruolo di critico della società. Questa concezione dell’artista scenico risale al XIII secolo con la comparsa della casta dei griot. Nella cultura dell’Africa occidentale, i griot, poeti e cantori, rappresentano una figura sociale di spicco in seno alla comunità: detentori della parola e portatori di messaggi, stimolano la riflessione e custodiscono  fedelmente la tradizione e la storia dei popoli di questa regione. Essendo questa cultura trasmessa oralmente, si dice che: “Se muore un griot, un’intera biblioteca scompare”.  Il griot, infatti, ci permette di conoscere il passato, di costruire il presente e il futuro di una comunità. I griot sono anche responsabili della conservazione delle genealogie e della memoria collettiva. In passato il griot svolgeva, inoltre, il ruolo di consigliere e diplomatico del re dell’Impero del Mali e veniva inviato presso le famiglie nobili.  Con l’arrivo dei colonizzatori, questa funzione è venuta meno.

Oggi come allora, intervengono in cerimonie importanti come battesimi, matrimoni, funerali e riti di passaggio, interagendo con il pubblico per suscitare emozioni e trasmettere un insegnamento. Possono distinguersi per capacità artistiche differenti, esprimendo talenti legati alla danza, alla musica o al teatro, grazie a un’iniziazione che può avvenire fin dall’infanzia per proseguire, poi, con una formazione coltivata nel tempo. Sempre più sviluppata è, inoltre, la capacità di spogliarsi della propria identità per rappresentare il villaggio. Non si tratta quindi semplicemente di svolgere un lavoro, ma di assumere una responsabilità sociale nei confronti della comunità, con la funzione di preservarne e trasmetterne la storia e la cultura.

La figura dei griot è completata dalle tradizionali maschere africane, ciascuna dotata di un significato culturale e spirituale diverso e molto profondo. Le maschere sono sacre e vive, purché si trovino all’interno della comunità e siano indossate sul palco; una volta appese a un muro, muoiono. Durante alcune cerimonie e rituali vengono indossate da giovani iniziati che danzano al centro di un cerchio sacro. I movimenti sono accompagnati dalla musica suonata dal griot, che ha solo il ruolo di musicante. Nel loro carattere sacro, sono percepiti come mediatori tra il mondo degli antenati e quello dei vivi. La comunicazione tra questi due mondi è diretta e facilitata dal capo della terra, è una figura tradizionale in Africa Occidentale] che funge da tramite. Sotto le  maschere vi sono dei giovani, che vengono iniziati a questo ruolo e che, nell’esercizio di tale funzione, entrano in uno stato di profonda trance durante il quale incarnano lo spirito della maschera stessa, cogliendo l’essenza dell’animale che rappresentano.  Il colonizzatore che andò a studiare queste forme teatrali prima della colonizzazione, soprattutto in Mali, non cercò di definirle e descriverle con termini occidentali (commedia, tragedia, dramma), ma diede loro un nome speciale: Kotéba. Una trasformazione che segnò anche il passaggio dallo spazio scenico del circolo sacro, caratteristico della forma teatrale in cui evolve il griot, a uno spazio frontale occidentale.

Nel secondo giorno di workshop, Sada Dao ha guidato gli studenti della Civica Scuola Paolo Grassi verso un approccio pratico alla scoperta della maschera africana. Abbiamo anche potuto tenere con lui una conversazione, durante la quale ci ha detto: “Sono uno scenografo e un creativo che opera negli spazi pubblici e, per diversi anni, ho lavorato molto con gli studenti per sviluppare nuovi approcci attorno alla progettazione teatrale in spazi pubblici.  Ho conseguito una laurea magistrale presso l’Università di Clermont-Ferrand dove ora sono ricercatore associato. Oggi vivo a Parigi e collaboro con associazioni, organizzazioni sociali e faccio tournée con compagnie di teatro e danza”.

Anche durante il lockdown a Ouagadougou, Sada Dao non si è fermato e ha creato il concetto di performance  “ M’être Carré”  [gioco di parole francese tra Mètre Carré, cioè Metro quadro, e M’être Carré, cioè mettersi comodo] . Il suo obiettivo era presentare al pubblico questo nuovo spazio scenico limitato a un metro quadrato, a seguito delle misure di distanziamento sociale messe in atto durante la crisi sanitaria Covid-19. A questo proposito ha dichiarato: “Ho così creato questo spazio ristretto in cui dare espressione al vivere quotidiano”. Ci ha poi raccontato il suo progetto “Faufilés” [Imboscati], nato dalla sua ricerca su tre aspetti: la restituzione degli oggetti d’arte africani acquisiti durante la colonizzazione (esposti e conservati nei musei europei), il concetto di “zoo umano” e la decolonizzazione dei musei in Africa. Tuttavia, non teme di mettere in discussione il senso di questa restituzione di opere, poiché si tratta di metterle nei musei e non di farle vivere.

Questo progetto si è sviluppato in due fasi: l’esposizione e la creazione. Nella prima fase, ha invitato 24 artisti (autori, musicisti e attori) provenienti da tutto il mondo al giardino Lecoq di Clermont-Ferrand per portare la loro visione dell’arte. Così racconta: “Ho portato  questi 24 artisti e ho permesso loro di esporre ed esprimersi come artisti e non come espositori. Gli sguardi dell’artista verso l’altro. È stato un approccio piuttosto interessante”. Sada Dao è poi tornato a Ouagadougou, in Burkina Faso, per la fase di creazione del progetto, che si è svolta presso il museo della musica della città. Ci spiega che si trattava di avvicinare il mondo del teatro a quello del museo, di valorizzare questi spazi, di renderli vivi e di cancellare lo sguardo dominante del colonizzatore. Questo è l’approccio che porta nella sua ricerca e nel suo lavoro di scenografo. A ciò aggiunge: “Voglio che le opere vivano e non siano solo arte plastica”. Inoltre, in Burkina Faso, cerca di condividere le sue conoscenze e i suoi pensieri con le nuove generazioni, perché lo spazio teatrale è uno spazio di condivisione e partecipazione. Per fare questo invita i giovani a trasformare i luoghi informali in cui lavorano, come ristoranti e bar, in luoghi d’arte e di teatro.

Dopo questo primo incontro, abbiamo avuto l’opportunità di scambiare qualche parola con Luca Fusi, attore, regista e ora docente presso la Civica Scuola Paolo Grassi. Ha parlato della sua formazione nel teatro di movimento e della parola nello stile di Lecoq presso la Scuola Teatro Arsenale di Milano e delle sue prime esperienze professionali come attore e poi regista alla fine degli anni ’90. Il suo rapporto privilegiato con l’Africa, e più precisamente con il Burkina Faso, si è costruito con laboratori organizzati nelle comunità locali, dove ha scoperto il teatro elementare, ma con un’enfasi sul linguaggio teatrale, un teatro vicino agli aspetti sociali. Ha cercato quindi di dar vita a uno scambio tra due culture: quella africana e quella occidentale, con un adattamento di quest’ultima alla specificità culturale locale. Tutto questo con l’obiettivo di uno “spazio poetico comune” tra due mondi diversi.

Nell’ambito del suo insegnamento presso la Civica Scuola Paolo Grassi, desidera trasmettere questo concetto, coniugando la necessaria struttura tecnica con la ricerca della specificità culturale. Si propone inoltre di far comprendere agli studenti l’importanza delle emozioni in ciò che fanno ponendo loro domande sul motivo e sul destinatario di un progetto. Il teatro sviluppato nella cultura dei paesi dell’Africa occidentale va verso il pubblico poiché è caratterizzato da uno spazio scenico circolare di cui la popolazione locale è parte integrante ed è invitata a interagire. Attraverso il suo lavoro di ricerca, Luca Fusi mira a dissolvere specificità e diversità culturali per individuare quello che Lecoq chiamava il terreno comune poetico, in altre parole l’universalità dei temi. Uno spettacolo, infatti, funziona se trasmette emozioni.

Il laboratorio ha quindi permesso ai partecipanti di avvicinarsi ed esplorare un aspetto molto interessante e, credo, poco conosciuto della cultura africana, riguardante il griotismo, le maschere, lo spazio scenico e il suo valore sociale. I punti di vista dei tre professionisti, con la loro testimonianza e la loro competenza, nonché la trasmissione della passione per il proprio lavoro, hanno reso possibili progetti di riscoperta e valorizzazione delle tradizioni. Questo scambio tra diverse forme teatrali si dimostra una fonte inedita di ricerca e sperimentazione. Una contaminazione che rivela, nonostante le differenze culturali, obiettivi comuni.