Quando la street art è solidale

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Milano, murales di Imperfect22 in Via Ventimiglia. Ph: Federica Locatelli

Osservare il paesaggio urbano è sempre stata una delle mie passioni. Un modo per sospendere il tempo. Spostarsi a piedi offre l’occasione e il piacere di scoprire qualcosa di nuovo, talvolta inaspettato. Proprio per questo motivo per arrivare alla Civica Altiero Spinelli di Milano mi piace variare i percorsi, esplorando gli isolati circostanti. È stato così, camminando un po’ in fretta, che il 17 marzo mi è capitato di assistere alla realizzazione di un murales in Via Ventimiglia, a pochi metri dalla stazione di Porta Genova. Mi sono fermata davanti a una troupe che stava per filmare due persone in procinto di ammantare con pennellate di rosa acceso un tratto di muro che costeggia la ferrovia. Accanto a me una signora anziana, alquanto stupita, non riusciva a trattenere il proprio disappunto, seppur in modo pacato e gentile: “ma come è possibile, non si può mica…”. A questo punto ho sentito il bisogno di appagare la mia curiosità: ho iniziato a chiacchierare con lei, provando a spiegarle che forse era un intervento autorizzato. Questa è l’ipotesi che mi è balenata per la mente in quel momento, in buona fede, mentre mi avvicinavo al gruppo di addetti ai lavori per capire cosa stesse succedendo. Giulia Ruggeri, ideatrice del progetto IMPERFECT (I’M PERFECT), mi ha spiegato come è nata l’idea di un charity wall a Milano in collaborazione con l’Istituto IEO-Monzino, con il patrocinio del Comune di Milano e la partecipazione dell’artista Yuri Catania. La sua campagna di sensibilizzazione per la diagnosi precoce del tumore al seno si presenta come un’opera di street art, un murales lungo 120 metri. 

Ciò che si vede svela poco per volta ciò che sta dietro la vernice fresca e ciò che sta sopra: un ritratto fotografico. Corpi di persone che dopo avere vissuto l’esperienza di una malattia oncologica hanno deciso di mettersi a nudo, posando per uno shooting per dare una voce, una forma e un volto a un messaggio che parla a tutti. 

Milano, Prima fase del murales di Imperfect22 in Via Ventimiglia. Ph: Federica Locatelli.

Il ritmo della sessione è concitato, come si può vedere nel timelapse pubblicato sul profilo Instagram di Imperfect22 che restituisce il live di un affresco urbano che non è il solito affresco. Non è uno dei tanti in cui ci si imbatte girando per Milano o altre città. Non è un poster pubblicitario e nemmeno il gesto solipsistico di un artista demiurgo che dipinge per proporre un’unica visione della realtà, la propria. 

Tutti i giorni in università parliamo di comunicazione, ne siamo assorbiti quando discutiamo di aspetti tecnici (canali e strumenti), di dinamiche geopolitiche e mentre ci occupiamo di una sfera intima: in ambito umanistico tocchiamo temi come linguaggio, cultura e società, che ci riguardano e ci coinvolgono in prima persona. Di fronte a una scenografia che sta prendendo vita a un ritmo frenetico, mi domando in che modo e in che misura la street art possa trasmettere valori e ideali in un’ottica di condivisione e di rispetto, educandoci al confronto con ciò che è diverso e altro da noi, magari aiutandoci a superare le nostre debolezze e fragilità.

Ciò che vedo qui mi sembra inedito per la nostra città e mi ricorda altri esempi che senza essere passati dai social media (che ancora non esistevano) hanno lasciato tracce materiali ancora visibili sui muri e sono ancora presenti nella memoria collettiva. 

Mi viene subito in mente Keith Haring, il primo artista a rendere popolare la street art, tanto da diventarne l’emblema, prima nella società americana e poi all’estero. Del resto chi non riconosce le sue iconiche figure, così famose anche a distanza di molti anni? L’idea di ripercorrere la sua carriera nasce proprio dalla sua capacità di proporre una visione critica del mondo a partire da un’esperienza personale. Inventore del graffitismo su larga scala, ha scelto di farsi portavoce di valori universali. Con un linguaggio pop, popolare nel senso di fruibile e aperto a tutti.

Dai suoi esordi per le strade di New York e nei tunnel della metropolitana – con pochi gessetti con cui tratteggiava figure antropomorfe, oggetti volanti, fumetti celebri, opere d’arte rivisitate, arrivando a inventare icone divenute famose come i “radiant baby”, bambini che camminano a carponi avvolti da raggi splendenti – il repertorio iconografico di Haring è approdato a uno stile immediato e universale, in grado di raccontare temi caldi e profondi. Come? Disegnando e dipingendo per le strade, riempiendo grandi superfici con una velocità incredibile, senza interruzioni, senza dubbi, a ritmo di musica rap, quasi come farebbe oggi un filmaker. Superfici lunghe centinaia di metri finivano per assomigliare a un cortometraggio in cui era la vita della società americana di allora a essere inquadrata in scene quotidiane e comuni che parlavano di amore e di pace, di violenza e di sesso, denunciando il razzismo, l’omosessualità, il nucleare, la fame nel mondo, la dipendenza dagli stereotipi sociali, in modo divertente e mai banale, grazie a un linguaggio che appare gioioso, coinvolgente e facilmente accessibile anche per i non addetti ai lavori, quest’ultima cosa non scontata.

La sua battaglia personale per la lotta all’omofobia diventò la battaglia di tutti, così come le iniziative per la ricerca sull’Aids, che aveva colpito anche lui: “ho un ultimo pensiero in mente, tirare le somme. Mostrare tutto quello che ho imparato con la pittura. È uno dei vantaggi di essere malato”.

Keith Haring, Ignorance = Fear, 1989, litografia, SFMOMA. ph: Rob Corder (Flickr)

Pensando a quanto sia difficile raccontare a parole temi delicati come la sofferenza, il dolore e la malattia, è quasi naturale ricondurre a lui il merito di averlo fatto per primo, affidando i suoi messaggi a una storia per immagini, diventando una figura paradigmatica di quella che oggi è comunemente chiamata “urban art”. Haring ha sentito il bisogno di allargare a un pubblico più ampio la partecipazione e la fruizione delle sue opere, intuendo che l’arte non è nulla senza l’immaginazione della gente che ne fruisce.

Haring è stato anche il primo artista a interessarsi al mondo dell’infanzia e ai giovani, partecipando a circa trenta progetti per scuole e ospedali sino al termine della sua prolifica e purtroppo breve carriera. 

“Non c’è niente che mi renda più felice di far sorridere un bambino” resta una delle sue dichiarazioni più famose, in capo a una visione controcorrente e avanguardista sulla funzione dell’arte. Celebre è il suo intervento per il Necker Children’s Hospital di Parigi, in cui volle come protagonisti proprio dei bambini per colorare le sue imitatissime icone: dopo aver predisposto un graffiti in bianco e nero su lunghissime pareti, tratteggiandone solo i contorni, affidò una parte del suo lavoro a una squadra di piccoli artisti. 

Alternando il lavoro con i bambini a iniziative nei musei e in giro per il mondo, nel 1989 arrivò anche in Italia, a Pisa, per creare il suo ultimo murales sul retro di un convento, dietro alla chiesa di San Antonio Abate, in pieno centro storico, in un punto nevralgico dei percorsi urbani ed extraurbani, vicino alla stazione degli autobus. È curioso come la città prescelta fosse in origine Firenze, ma lì non c’erano pareti disponibili, se non in alcuni edifici periferici. Questo lo spinse altrove, per individuare una zona segnata dai passaggi quotidiani e al centro della vita delle persone.

Pisa, Murales “Tuttomondo” di Keith Haring, 1989. Ph: Federica Locatelli

Questo affresco non l’ho scoperto per caso, sono andata a cercarlo, durante uno dei miei frequenti viaggi in Toscana quando c’era ancora mia nonna, originaria di Pontedera, praticamente a due passi da lì. Ho percorso a piedi una delle vie principali del centro, con negozi, bar e franchising che si susseguono da una vetrina all’altra in modo uguale a tante altre città, senza provocarti particolari scossoni, finché non te lo trovi di fronte. Il disegno è su una parete alta 18 metri con una superficie dipinta di 180 metri quadri, popolata da 30 figure perfettamente incastrate l’una nell’altra come i pezzi di un puzzle in cui sembra predominare l’horror vacui: l’imperativo è riempire ogni spazio possibile! Qui è racchiuso tutto il mondo di Keith Haring: la vita degli uomini e degli animali, in un’esplosione di forme e di colori che comunicano gioia di vivere con leggerezza, allegria e con la consueta ironia che lo caratterizza. Per esempio un paio di forbici assume sembianze umane a simboleggiare il taglio con la cultura di sopraffazione della natura. 

Pisa, dettaglio del murales “Tuttomondo” di Keith Haring, 1989. Ph: Federica Locatelli

Lo sguardo dell’artista è infatti rivolto al mondo e alla sua conservazione (allora si parlava di ecologia) con un messaggio forte: l’armonia e la pace, da cui il titolo “Tuttomondo”, con cui è stata battezzata una delle poche opere di Haring che ha un nome. Per un artista di rottura mi viene quasi da sorridere. È l’ironia della vita e il destino di un profilo fuori dal comune che durante le sue performance l’ha portato a essere circondato, anche in una piccola cittadina toscana, da un pubblico popolare: passanti, galleristi, esperti o semplici curiosi, oltre naturalmente agli “street kids” che l’hanno aiutato a dipingere in una settimana un affresco che oggi è sotto la tutela della Soprintendenza per il suo valore culturale e artistico. 

È così che nasce un murales, da un’idea o da un’intuizione che si sposano con l’incontro di persone che lo rendono possibile, con un lavoro meticoloso (e noioso) fatto di iter burocratici e pratiche amministrative per la richiesta dei permessi, lunghi tempi di attesa in cui si presentano progetti e varianti, fino al rilascio del via libera da cui tutto può avere inizio. È successo anche a Milano, una città cosmopolita e multietnica in continua evoluzione, che cerca di mantenere il legame con la storia e con il proprio passato mentre si proietta verso il futuro. Un anno è il tempo impiegato dai promotori di Imperfect22 per poter iniziare il progetto.

L’opera di Yuri Catania è piaciuta anche alla signora che all’inizio aveva espresso molte perplessità, non solo si è convinta della bontà dell’iniziativa, ma ha apprezzato il lavoro dietro le quinte, mostrando entusiasmo e ha persino continuato a tenermi compagnia…Abbiamo conversato, scoprendo di avere storie famigliari in comune, finché un’intera parete non si è accesa di un colore rosa fluo, complice una giornata di sole che proprio in quel momento – forse non del tutto casuale – rendeva particolarmente suggestivo un frammento di città altrimenti anonimo e muto.

Per tutto il tempo in cui sono rimasta sul posto, cercando di acquisire più informazioni possibili, sono rimasta ad osservare ciò che succedeva intorno. Devo confessare che questo è stato il momento più appagante: sentire i commenti, osservare la reazione delle persone, botte e risposte fra Yuri e i suoi collaboratori, il sorriso di Giulia Ruggeri, i ragionamenti appena abbozzati che poi prendevano una forma compiuta e coerente per essere espressi ad alta voce. L’arte urbana, detto in italiano, è qualcosa che si svolge all’aperto, suscitando pensieri, ricordi e riflessioni. È interessante nel momento in cui lo spazio circostante diventa una piazza, un luogo di scambio e di incontro fra mondi e modi di pensiero diversi che possono incontrarsi, confrontarsi e magari avvicinarsi. L’inizio è ciò che abbiamo di fronte, ma poi è inevitabile, ed è giusto che sia così, che ognuno reagisca con la sua sensibilità e rispetto a un vissuto che gli appartiene. 

Milano, dettaglio delle “cicatrici dorate” del murales di Yuri Catania per la campagna di prevenzione oncologica di Imperfect22. Ph: Federica Locatelli

Le foto sul muro di Via Ventimiglia mostrano i segni e i solchi degli interventi al seno, rifiniti, integrati e impreziositi dal tocco gentile di Yuri Catania, che ha usato la tecnica giapponese del kintsugi, l’arte di riparare la ceramica con vernice dorata, per ricostruire le cicatrici e imparare ad amarle: “Dall’imperfezione di una rottura nascono nuove forme di perfezione estetica superiori. IMPERFECT infatti si può leggere così o I’M PERFECT, con le lettere IM dorate a sottolineare questo concetto”.

C’è sempre un punto di partenza, magari non sappiamo quale sarà la nostra destinazione, ma strada facendo possiamo cogliere spunti e opportunità, come perfezione e imperfezione, due facce di una stessa medaglia, sempre più presenti nella società contemporanea.

Quando mi allontano per tornare a casa rivedo nella mia mente lo stencil di metallo in cui sono ritagliati i caratteri IMPERFECT, usato per dipingere il titolo (e slogan) del progetto. O volevo dire I’M PERFECT?