Il supporto māori alla Palestina nelle parole di Debbie Ngarewa-Packer

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Debbie tiene un discorso in supporto dei palestinesi fuori dal parlamento neozelandese, 28 ottobre 2023

Il 7 ottobre 2023 Hamas ha condotto un attacco a sorpresa contro Israele, nonostante il completo regime di sorveglianza a cui è sottoposta la Striscia di Gaza (dove Hamas ha da anni la sua base operativa), una delle aree più densamente popolate a livello globale. La pesante risposta di Israele non è tardata, così come non sono tardate le proteste in giro per il mondo a causa della sua brutalità. A far sentire la loro voce ci sono anche i māori di Aotearoa, nome māori della Nuova Zelanda, che da ottobre scendono in piazza a protestare per supportare la comunità palestinese. La loro voce è forte anche sui social media, in contrapposizione alla narrazione parziale dei principali mezzi di informazione nazionali.  

I media tradizionali occidentali hanno seguito il conflitto con un approccio particolare, ovvero presentando il conflitto quasi esclusivamente dal punto di vista israeliano. La guerra in Ucraina però ci ha mostrato come l’informazione in tempo di guerra sia cambiata radicalmente. E il cambiamento passa proprio attraverso i social media. La stessa cosa sta succedendo in Palestina. In tutto il mondo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, le persone sono spettatrici di ciò che sta avvenendo nella Striscia di Gaza, dei bombardamenti israeliani, dei palazzi che crollano, dei palestinesi che si ammassano intorno ai convogli umanitari per tentare di accaparrarsi un po’ di cibo, del blocco degli aiuti internazionali. Ma soprattutto sono spettatrici delle numerose e continue morti di civili di ogni età. Il tutto senza filtri, con un unico messaggio iniziale per avvertire lo spettatore: “contenuti sensibili”. 

Da quando è partita la risposta militare israeliana all’attacco a sorpresa di Hamas, i māori sono scesi in piazza ogni settimana, in diverse città, per protestare contro la violazione dei diritti umani, lo scontro impari tra le due parti e l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, che ormai va avanti dalla nascita dello Stato di Israele nel 1948. 

Perché una popolazione così lontana, che all’apparenza non avrebbe nulla da condividere con i palestinesi, ha preso così a cuore la loro situazione? A rispondermi è stata Debbie Ngarewa-Packer. Quando una persona māori si presenta è usanza nominare le iwi (tribù) di appartenenza. Debbie discende dalle iwi Ngāti Ruahine, Ngāruahine e Ngā Rauru, tutte iwi basate a sud della regione di Taranaki, situata nella parte occidentale dell’Isola del Nord. Debbie è la co-leader del partito māori, ora all’opposizione, Te Pati Māori. È al suo secondo mandato al Parlamento neozelandese. Debbie è conosciuta per le sue lotte in difesa dell’ambiente e dei diritti māori, ora a rischio con l’avvento al governo di una coalizione di destra guidata dal primo ministro Christopher Luxon, leader del Partito Nazionalista.

Debbie è in prima linea nella difesa dei diritti dei palestinesi, chiedendo al governo di fare appello per un cessate il fuoco. Il partito Te Pati Māori ha inoltre sostenuto la richiesta di espulsione dell’ambasciatore israeliano, se Israele non avesse implementato un cessate il fuoco o aperto un corridoio umanitario verso la Striscia di Gaza. Il 28 ottobre 2023 Debbie ha tenuto un discorso in supporto dei palestinesi fuori dal Parlamento neozelandese a Te Whanganui a Tara, nome māori di Wellington (nda): 

Debbie Ngarewa-Packer

“Siamo i risultati e le testimonianze viventi dei sopravvissuti alla colonizzazione e se non fosse per l’attivismo, se non fosse per chi ci ha difesi contro quei colonizzatori, noi oggi non saremmo qui. […] Utilizzate i social media, utilizzate la vostra voce a dispetto dei media che ci ignorano. […] Non aspettate i politici, non aspettate che i leader facciano ciò che è giusto, voi siete il potere. […] Te Pati Māori continuerà a essere in solidarietà con voi (palestinesi)”. 

Ho parlato con Debbie il 6 febbraio, un giorno molto speciale per i Māori, ovvero Te Rā o Waitangi (il giorno di Waitangi), quando si commemora la firma di Te Tiriti o Waitangi (il trattato di Waitangi), documento sul quale si fonda l’intero stato neozelandese. Debbie racconta che i loro antenati ebbero la visione di vivere in armonia con i coloni e li invitarono a firmare un trattato, con il quale si impegnavano a prendersi cura di loro stessi e a vivere in armonia con i māori, che avrebbero continuato ad autodeterminarsi. Il trattato, al tempo della firma, esisteva in due versioni, una in lingua māori (e firmata dalla maggior parte dei capi māori, nda) e una in inglese. Quest’ultima presentava volutamente delle differenze di significato rispetto alla copia māori e fu quella che rese possibile la colonizzazione di Aotearoa/Nuova Zelanda. Una colonizzazione brutale. La popolazione māori passò da 18000/19000 persone a 15000. Ci furono espropriazioni delle terre e trasferimenti forzati. Oggi questo trattato rappresenta ancora un forte motivo di tensione politica sia perché è stato interpretato in diversi modi a causa delle due versioni, sia per il fatto che la maggioranza di governo vorrebbe modificarlo.

Qui in Italia i māori ci sono più o meno familiari grazie alla maglia nera della squadra di rugby neozelandese, gli All Blacks, che aprono ogni partita facendo tremare lo stadio con la haka “Ka Mate”, la più famosa oltreoceano. 

La parola chiave che spiega l’avvicinamento e la solidarietà dei māori ai palestinesi è ‘comprensione’. Comprensione delle ingiustizie e del trauma che questi ultimi stanno vivendo in Medio Oriente.

“Noi (māori) veniamo da una cultura che ha perso l’80% della propria terra, a cui è stata sottratta la possibilità di autosostentarsi e prosperare economicamente. Ci hanno portato via le nostre basi culturali. Essendo persone indigene possiamo quindi capire ciò che vediamo, quell’apartheid. Abbiamo avuto diversi governi nel tempo, che hanno reso illegale praticare il nostro benessere, vivere sulla nostra terra, parlare la nostra lingua. Possiamo capire quel trauma intergenerazionale e quella violenza”. 

Debbie prosegue dicendo che in Nuova Zelanda gran parte della popolazione, anche se non conosce la storia, non supporta e non tollera dal punto di vista umano la violenza a Gaza. Per Aotearoa/Nuova Zelanda l’attivismo è un’attività ben consolidata e per questo ci sono state grosse sollevazioni per mostrare solidarietà al popolo palestinese. Debbie riceve mail ogni giorno. Messaggi che le chiedono di fare qualcosa, di promuovere sanzioni, di far espellere l’ambasciatore israeliano. Questo tipo di pressione ha portato anche i media tradizionali ad allontanarsi dal racconto sulla base di un’unica narrazione. Ma per la co-leader di Te Pati Māori il vero potenziale si nasconde nei social media. I social rappresentano un nuovo tipo di resistenza e la destra che non ha voluto dare visibilità al comportamento di Israele sui media tradizionali è stata semplicemente oscurata da tutti coloro che invece hanno condiviso le immagini di ciò che succede a Gaza e le immagini delle proteste in giro per Aoteroa a supporto dei palestinesi. È da mesi che su Instagram vedo le storie degli account di māori che seguo condividere notizie su Gaza, video delle proteste, ma anche opere d’arte a supporto del popolo palestinese. Non sono solo le proteste ad esprimere il supporto ai palestinesi, ma anche l’arte visiva di artisti maori che intrecciano soggetti appartenenti alla cultura e tradizione māori a simboli e frasi che richiamano la Palestina. Tra questi artisti figura Jessica Hinerangi (@maori_mermaid), che ha dedicato diverse sue opere alla causa palestinese. 

IG @maori_mermaid

Il 6 febbraio proprio a Waitangi si è tenuto un evento che ha visto un acceso dibattito tra i rappresentanti di diverse istituzioni politiche māori, i capi delle iwi e la coalizione di governo, che vuole rivedere i principi del trattato di Waitangi. Durante l’evento oltre alla bandiera māori e cartelloni con la scritta “toitū te tiriti” (onora/rispetta il trattato), sventolava anche la bandiera palestinese. Debbie sottolinea che spesso chi lotta per sostenere te tiriti lotta anche per la Palestina e che le due cause sembrano essere estremamente intrecciate. C’è però una parte della comunità māori residente in Australia che sostiene la visione sionista. Si tratta di māori che tendenzialmente dal punto di vista religioso hanno visioni estreme. Questo gruppo ha performato la haka in sostegno della causa israeliana, ma Debbie sostiene che la haka non appartenga a quelle credenze. 

La co-leader di Te Pati Māori è stata criticata per aver spesso utilizzato la frase “mai te awa ki te moana”, il controverso slogan “dal fiume al mare” tradotto in lingua māori. Questo slogan è stato criticato perché considerato traumatizzante dа alcuni ebrei, oltre che essere sentito come una chiamata all’annientamento di Israele, obiettivo dichiarato di Hamas. A queste critiche Debbie risponde chiaramente che non supporta nulla che sia contro le comunità ebraiche. Secondo lei questa frase è legata ai sentimenti e alla visione dei palestinesi, al diritto di esercitare la propria sovranità e autodeterminazione. Vuol dire essere contro il governo israeliano e la forza che sta utilizzando, essere contro il genocidio, contro i bombardamenti sostenuti dalle potenze occidentali. 

“Questa non è autodifesa. Questo è arrogarsi il diritto di annientare un’altra popolazione e utilizzare il loro potere per bloccare gli aiuti umanitari. C’è un solo schieramento e un solo gruppo di vittime”.

Debbie Ngarewa-Packer indossa la bandiera māori con i colori palestinesi

Alla mia domanda su che messaggio volesse lasciare ai giovani italiani che non si sentono rappresentati dal proprio governo di destra come in Nuova Zelanda, Debbie mi ha risposto raccontandomi un aneddoto. Una volta una persona le ha chiesto chi fosse il politico più importante che si è battuto per i diritti umani e per fermare discriminazioni e violenze, e in che posizione si trovasse. Rispose Nelson Mandela, uno dei politici più importanti, con la sua lotta per fermare l’apartheid in Sudafrica, la violenza e l’assoluta discriminazione del suo popolo. Mandela era un politico all’opposizione, proprio come lei ed è stato a lungo rinchiuso in carcere. Debbie evidenzia anche il fatto che Mandela non avesse accesso ai social media come invece abbiamo noi oggi e poi lancia un appello:

“Aggrappatevi alla vostra sfera di influenza, credeteci e usatela, perché se uno come Nelson Mandela, che per decenni è stato imprigionato, fu capace di farsi valere e far crescere un movimento […] Noi con l’accesso che abbiamo, basta avere una connessione, abbiamo la capacità di fare e di essere come Nelson Mandela nel mondo e fermare l’annientamento di una popolazione. […] Tutti possiamo essere quella differenza, dobbiamo solo credere in noi stessi e rimanere uniti. Questi governi vanno e vengono e finiscono nei libri di storia, dove vengono visti per i tiranni che sono. Noi abbiamo la capacità di essere il cambiamento per la sofferenza dei palestinesi e di qualsiasi altro popolo là fuori”. 

Debbie rilascia molte interviste, partecipa a molte proteste ed eventi a favore della Palestina, di questioni ambientali e anche della comunità LGBTQ+. Inoltre è molto attiva sui social. Usiamo la nostra voce, usiamo le nostre piattaforme e siamo il cambiamento come Nelson Mandela, o forse dovrei dire come Debbie Ngarewa-Packer.  

Fonti

https://www.wired.it/article/israele-guerra-hamas-attacco-sorveglianza-fallimento-intelligence