Sono molto in difficoltà nel tentare di spiegare che cosa significhi il Friuli per me. Quando ci penso, vengo spesso sopraffatto da quel groviglio di ricordi e sensazioni che ti zittisce e non ti fa più trovare le parole. Provo a prendere le mosse da un piccolo episodio avvenuto ormai in età adulta, apparentemente insignificante ma che mi fece pensare e che evidentemente mi colpì, se ne ho ancora un ricordo tanto vivido.
Ero di rientro dal Cadore, dove avevo appena partecipato a un congresso, ed era ormai sera, una sera già mite di fine marzo. Mi ero fermato in un’area di servizio poco dopo Treviso. Avevo parcheggiato l’auto sotto i pini marittimi della piazzuola di sosta e, aprendo la portiera, ero stato investito da una brezza tiepida che sapeva di mare. E, come in una macchina del tempo, di colpo mi ero rivisto bambino, nella piazza del paese, a raccogliere i pinoli nel giardinetto attorno al monumento ai caduti, sotto l’ombra di quegli stessi pini marittimi. Era come se all’improvviso, e per la prima volta da adulto, vent’anni fossero stati azzerati, riannodando un filo ormai spezzato da due decenni.
Quando un luogo ti entra nel cuore, non te ne liberi più. Nel bene e nel male.
Il Friuli. Da bambini ci passavamo estati intere. Appena finite le scuole venivamo parcheggiati dalla prozia, che per noi era praticamente una nonna, ed eravamo a festa. In quella casa in sasso, nelle camerette mansardate ricavate dal solaio, le imposte chiudevano male e lasciavano filtrare un raggio di luce che, all’alba, proiettava il paesaggio sulla parete della stanza capovolgendolo, come in un cinematografo alla rovescia. Per magia eravamo trasportati in un’improvvisata camera oscura. (1) Per noi, in quella casa in sasso tutto diventava un gioco: i gatti di mia zia che lei riusciva a far mangiare nello stesso piatto insieme al cane, i polli e conigli dei vicini, gli amici di famiglia che venivano a trovarci la sera dopo cena e con cui avevamo, eccezionalmente, il permesso di rimanere alzati a mangiare la torta gelato e a chiacchierare fino a tardi… per noi quella sì che era vita.
Con mia zia vigevano poche regole ben chiare: niente parolacce (non le sopportava), e mai sognarsi di rimettere in discussione la sua autorità. Le rarissime volte che diceva “no” era “no”, e noi lo sapevamo. Per il resto ci lasciava fare ciò che volevamo e, per noi, la zia si inventava ogni giorno un nuovo passatempo, una nuova passeggiata, un nuovo divertimento. Ci cucinava solo ciò che ci piaceva, coinvolgendoci nella preparazione che in questo modo diventava l’ennesimo svago – il poco che so fare in cucina l’ho imparato così.
Per noi quell’angolo sperduto di Friuli, in un punto in cui una pianura semidesertica va a sbattere contro una bastionata di montagne altissime e incombenti, era una Disneyland in cui tutto era un gioco, tutto era magico.
L’estate scorreva via tra passeggiate in collina, gite in bicicletta, nuotate e pic-nic al torrente su quei massi candidi e levigati, solcati da vene d’acqua azzurra che pareva vetro. Poi arrivava la sagra di agosto, e allora erano serate sotto le stelle all’insegna di salamelle e polenta abbrustolita comprate in un chiosco improvvisato mettendo insieme dei tronchi d’albero; erano la musica e le giostre del luna park, con i botti delle autoscontro e gli urli e le risate che provenivano dai seggiolini della calcinculo; era la pesca di beneficenza con i bigliettini scritti a macchina e arrotolati in un anello di pastina da fare in brodo; erano le 500 e le 600 truccate con il doppio scarico, la doppia riga nera sulla capote, il volante in legno, l’autoradio e i ganci di gomma per bloccare il cofano, e al volante giovani energumeni che fumavano, ridevano e scherzavano tra di loro in una lingua a noi incomprensibile, il ladino. (2) E quando non c’erano sagre e luna park, c’era il gelato sotto il sole secco e caldo del meriggio, le partite a flipper al bar mentre il juke-box spandeva fin fuori in piazza le note di Baglioni e di Marcella, il mercato a Maniago con le automobiline in plastica colorata a 100 lire a cartoccio. Persino andare a piedi fino alla stazione a veder passare la littorina diventava una gita: un chilometro di stradina sterrata in mezzo a campi e boscaglia. Di giorno, lungo il ciglio coglievamo le more di gelso, turgide, bianche e zuccherose; nel fresco della sera, invece, quello stesso ciglio era punteggiato di lucciole, con le loro ondate di lampeggi color acquamarina, con i grilli di sottofondo e lo scricchiolio della ghiaia sotto i piedi come unici rumori.
La noia, quella, non sapevamo neppure che cosa fosse. La mia passione per i treni è nata lì, vedendo la littorina sfrecciare in cima all’altissimo viadotto ad arcate in mattoni color ocra che scavalcava il largo greto sassoso del torrente, tra massi e gabbionati che proteggevano i piloni dalle violente piene invernali. Dal greto del Meduna, quaranta metri più in basso, lo sferragliare ritmico delle ruote dell’automotrice sul binario aveva un che di surreale: riecheggiava tra le arcate del ponte, rimbalzava sui massi levigati dall’acqua e pareva giungere sino a noi da un altro tempo, da un’altra dimensione, eco di una fugace apparizione.
Ed è nata lì anche la passione per la montagna. Salivamo in cima alla collina che sovrasta il paese e una volta sul crinale, finalmente usciti dal bosco, d’improvviso ci apparivano davanti al naso le creste seghettate delle Dolomiti Friulane.
E poi… e poi finiva. A metà settembre venivamo riportati a casa, con pianti a dirotto di cui i miei non si capacitavano. A quel punto iniziava un tunnel di dieci mesi durante il quale, recluso nel claustrum di casa e famiglia a Lodi, ho concepito un’altra mia passione, quella per la geografia. Prendevo la cartina del Touring Club, la aprivo alle pagine del Friuli occidentale e la scrutavo come se aspettassi che, da un momento all’altro, quella cartografia divenisse territorio in carne e ossa. Scorrevo con lo sguardo quei toponimi, quei nomi di monti, valichi e torrenti mezzi veneti e mezzi ladini, e mi sentivo riecheggiare nell’orecchio i suoni della parlata mezza veneziana e mezza cadorina in cui ero rimasto a mollo tutta l’estate.
E la nostalgia mordeva.
Poi venne il terremoto.
Era il 1976, la casa dovette essere demolita perché tentare una riparazione sarebbe stato costosissimo e per molti anni in Friuli non si andò più. Riprendemmo, sporadicamente e per brevi periodi incasellati fra mille impegni di studio e lavoro, solo molti anni dopo, da metà anni Ottanta, ma non era più la stessa cosa.
E non lo fu mai più.
Eppure…
Non è la stessa cosa, ma lo è in un certo senso.
In Friuli, per la verità, da adulto sono tornato più volte e si dice che, da adulti, le cose si vedano con occhi diversi, anche se io non ne sono così sicuro.
Per chi non conosce il Friuli, devo spiegare alcune cose. In quel lembo di Triveneto vi è un paesaggio credo unico al mondo. E’ un territorio spopolato e solcato da torrenti immensi che trascinano a valle sassi giganteschi, sfasciumi, ciottoli, ghiaia candida. Macerie di una geologia che si è disfatta e accatastata in milioni d’anni fino a formare, allo sbocco delle valli, una spianata carsica spessa circa duecento metri, che va digradando verso il mare. Quella piana è una steppa sassosa che inghiotte i torrenti per farli riemergere in superficie solo decine di chilometri più a valle, nella Bassa, come fiumi larghi pochi metri ma ricchi d’acqua. Così il Piave, il Tagliamento, il Meduna, il Cellina. Nelle immagini dell’Italia ripresa dal satellite il loro greto enorme e quasi sempre in secca si vede a occhio nudo come uno squarcio bianco, lo si scorge dagli aerei in rotta verso la Polonia, la Russia o la Scandinavia. Quella per me è casa.
C’è però un punto, nella pianura tra Maniago e Pordenone, in cui Meduna, Cellina e Colvera confluiscono l’uno dell’altro, fondendo i loro greti un arido deserto di sassi largo diversi chilometri, interrotto solo da qualche arbusto e circondato da catene di monti rocciosi e incombenti in lontananza, come una quinta che faccia da sfondo a un teatro.
E’ un paesaggio che ti mozza il fiato. Quando sei lì in mezzo imagini la potenza dell’acqua, la forza incontenibile che ha creato un luogo del genere, demolendo e trascinando a valle bastionate di rocce, pareti e guglie che immani spinte tettoniche continuano a innalzare.
E’ un paesaggio drammatico e stupendo e, se hai avuto negli occhi quello sin da bambino, tutto il resto ti pare scipito. Lì in mezzo sei sopraffatto dal silenzio rotto solo dalla brezza, sei messo a terra da un sole che pare piombarti addosso per confonderti tra i sassi di quel deserto.
E’ una natura che fa paura e che a volte terrorizza. Se si scatena, come nel 1963 con il disastro del Vajont o come nel 1976 con il terremoto, provoca catastrofi immani. Longarone spazzata via in pochi secondi. Gemona rasa al suolo con i suoi tesori d’arte duecenteschi e trecenteschi. Secoli di storia cancellati e ricostruiti solo in parte perché lì, davanti a una smile apocalisse, persino la tenacia e la disciplina dei Friulani hanno dovuto chinare il capo.
Ricordo, senza arrivare a tanto, il fascino sottilmente inquietante dei temporali nelle sere d’estate. Si scatenavano all’improvviso. Immediatamente saltava la luce, ci si radunava attorno a una candela e si restava in silenzio ad ascoltare quel susseguirsi di colpi, fragori, boati, rimbombi, scrosci, sussulti. Era come se la natura avesse dichiarato guerra a quell’angolo di Tre Venezie dimenticato da tutti. Poi il rimbombo si affievoliva, smetteva di rintronare tra le valli per sfumare verso la pianura, verso il mare, verso Sud, lasciandosi dietro una strana sensazione rotta solo dal ticchettio della pendola e dal tremolio delle ombre che la fiamma della candela proiettava sulle pareti del driofogo. (3)
Quando ripresi ad andare in Friuli molto era cambiato, e non in meglio. Certo, nel frattempo sono apparse strade a scorrimento veloce, quell’alta pianura sassosa oggi è tutta a vigneti e frutteti talmente ordinati che paiono pettinati, punteggiati qua e là di cantine modello sempre ridipinte di fresco… Come scogli nel mare, ogni tanto affiora qualche angolo di passato. La chiesetta nella radura in riva al torrente, eretta nel punto in cui, mille anni fa, un viandante ebbe miracolosamente salva la vita da una piena improvvisa; la stazioncina dimenticata dove la littorina non arriva più con il brontolio del diesel e quel suo sferragliare sui binarietti sottodimensionati; il canale di irrigazione sopraelevato nel bosco, che ai miei occhi di bambino pareva un inutile e illogico viadotto in miniatura, messo lì per sbaglio sui quei piloncini ricoperti di muschio.
Ma troppo è cambiato.
Valli intere, stupende come solo un canyon di rocce bianche e acque turchesi può esserlo, sono state devastate da colossali opere in cemento, dighe altissime, chiuse imponenti e canali di sfogo in cui l’impeto dell’acqua ti trascina via anche i ricordi. Con l’ingegneria idraulica l’uomo ha tentato così di arginare un grandioso dissesto idrogeologico che, nei millenni, ha stravolto ripetutamente la cartina geografica. Bastava una piena invernale e intere frazioni erano spazzate via.
Laghi alpini dalle acque blu sono stati quasi completamente svuotati per irrigare quella pianura fatta di sassi, con il risultato che ora, in cambio di quei filari di vigneti, intere vallate hanno assunto un aspetto nudo e spettrale che le rende irriconoscibili.
Ma il vero scempio è nei paesi, in cui anche a causa del terremoto i centri storici in pietra e legno sono spariti, sostituiti da isolati e isolati di palazzine e villette a schiera, come l’immensa e indistinta periferia di una città che non c’è e non ci sarà mai.
Il Friuli, ma dovrei dire il mio Friuli, lo ritrovo a frammenti qua e là. Nei davanzali in candida pietra d’Istria dei paesi e delle cittadine del Veneto. Nei suoni della parlata di profughi istriani magari a Milano da settant’anni. Nel profumo di legna appena tagliata che ogni tanto pervade le vie di Broni. Nel sole radente di un mattino di tarda estate che illumina obliquo le chiome degli alberi facendole sembrare ancora più verdi. Nell’immenso greto bianco e azzurro del Trebbia poco prima di Piacenza.
Il mio Friuli non è più da nessuna parte, ma è ovunque.
Note e Bibliografia
(1) Per ulteriori dettagli su questo fenomeno ottico:
https://www.funsci.it/il-cielo-in-una-stanza.html
(2) Per essere più precisi, il friulano, lingua retoromanza al pari del romancio grigionese e del ladino dolomitico. In diverse zone della provincia di Pordenone esisteva ed esiste tuttora un trilinguismo di fatto: italiano, veneto coloniale e friulano. Nelle vie e nelle piazze di tanti paesi e cittadine si sentono tutte e tre le parlate con la stessa frequenza e molti parlanti le usano tutte quotidianamente.
https://it.wikipedia.org/wiki/Lingue_retoromanze
https://it.wikipedia.org/wiki/Dialetto_veneto_coloniale
(3) Termine regionale con cui si designa il focolare abitabile, un grande camino con le caratteristiche di una vera e propria stanza in cui, attorno al fuoco, si svolgevano le varie funzioni domestiche o si trascorrevano le serate d’inverno.
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