Non esiste solo il maschile

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ph: geralt/Pixabay

Cosa comporta e da cosa scaturisce la scelta di una forma linguistica piuttosto che un’altra quando si parla o si scrive? L’articolo di Marina Sbisà Il genere tra stereotipi e impliciti, pubblicato in Non esiste solo il maschile. Teorie e pratiche per un linguaggio non discriminatorio da un punto di vista di genere, risponde in modo esauriente a questa domanda, lasciando al lettore molteplici spunti di riflessione.

L’uso della lingua, diventato norma, ci impone delle forme il cui utilizzo non fa altro che confermare gli atteggiamenti gerarchici e classificatori su cui si basano. Cambiare la lingua, se anche fosse possibile, per far sì che non ci siano più dubbi o timori sulla declinazione al femminile di molti sostantivi, non si rifletterebbe in un cambiamento dal punto di vista sociale; non porterebbe a un immediato cambio di mentalità nella società composta dai parlanti di una lingua. Supponiamo che si applichi regolarmente la regola morfologica per cui i femminili delle parole terminanti in -ore si declinano in -ora: questa applicazione quasi utopica non si rifletterebbe automaticamente in un maggior rispetto nei confronti della donna che ricopre il carico di professora (anziché di professoressa); in modo analogo, se si considerasse il sostantivo studente valido anche per le persone di sesso femminile in quanto participio presente, e quindi indeclinabile, bambine, ragazze donne non sarebbero meno ricondotte alla sfera femminile rispetto ai loro coetanei maschi.

Secondo la filosofia del linguaggio parlare è agire; perciò, badando a come si scrive/parla si creerebbero non tentativi astratti ma occasioni che porterebbero a un cambio di direzione. Per questo eventuale cambiamento sono necessari degli accenni di linee di tendenza per “superare” lo scoglio più grande che separa le norme linguistiche dalla loro applicazione: l’inerzia degli stereotipi, che scaturiscono dagli impliciti. Sbisà li definisce come dei piccoli ricatti che ognuno di noi accetta, anche involontariamente, nel momento in cui si trova a dover entrare a far parte di uno scambio linguistico e afferma «Anziché chiederci se bisogna seguire le regole morfologiche e grammaticali del genere o alterarle, potremmo chiederci quali impliciti si generano quando si adotta l’una o l’altra scelta.» Parlando di un segretario a tutti, o alla maggior parte di noi, verrebbe in mente una figura come un segretario di stato per esempio; tuttavia, quando si parla di una segretaria a tutti, o alla maggior parte di noi, viene in mente una donna che lavora come segretaria in un ufficio, che magari prepara anche i caffè al capo.

Sbisà conclude l’articolo con un esempio calzante e chiaro che si potrebbe riassumere così: usando il sostantivo al maschile di una professione non si fa altro che evidenziare il fatto che una donna che ricopre quel determinato ruolo rappresenta un’eccezione, una persona che è riuscita ad ascendere nella propria carriera ricoprendo un ruolo che di norma è assegnato agli uomini; grazie alla declinazione al femminile, invece, si sottolinea che una professione può essere svolta sia da donne che da uomini, senza eccezioni, semplicemente ricoprendo un ruolo che può essere destinato sia a persone di sesso femminile che maschile.

Declinare al femminile i nomi delle professioni non è un “essere pignol*” o un “battersi per una causa persa”; declinare i nomi delle professioni al femminile crea occasioni per far sì che «non [ci sia solo] un avanzamento individuale che lascia gli stereotipi inalterati, ma un cambiamento che ha una dimensione collettiva. Per questo io credo che valga la pena di declinare al femminile i nomi di cariche e incarichi».

Articolo di Martina Cardinali