27 giorni all’inferno: il diario di Olha, prigioniera dei russi a Cernihiv

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L’Ucraina è un paese martoriato, lo è da quasi due anni ormai, e mentre per noi le notizie dal fronte di guerra assumono sempre di più la grana di un rumore di sottofondo – perché assuefatti dall’inevitabile ripetersi di aggiornamenti e bollettini –, per chi in quel posto ci sta in carne ed ossa il dolore degli orrori non conosce attenuazione. Dai divani delle nostre case, noi guardiamo questa guerra con una lente ad ampio raggio, condensiamo il mondo in una mappa, studiamo lo scacchiere geopolitico e annusiamo la temperatura dell’aria sbirciando nei salotti del potere. Di tanto in tanto il lavoro di qualche reporter sul campo ci strattona, ma perlopiù rimaniamo imperterriti nella nostra postazione a distanza. Distanza emotiva, s’intende. Ma la guerra è fatta soprattutto di cose che non vorremmo mai vedere o sentire e che invece è necessario vedere e sentire. Cose che ci permettono di cambiare lente e di fare zoom sulla realtà, che solo così ci appare per quello che è. Spietata, ingiusta, senza senso. 

Grazie al lavoro del giornalista Francesco Chiamulera, una di queste cose è arrivata fino a noi. Una testimonianza brutale di ciò che accade in Ucraina e che si nasconde alla vista dietro le mappe tratteggiate sui giornali e i discorsi fumosi che ascoltiamo nei talk show. La testimonianza ha la forma di un diario dalle pagine malconce, piene di righe accavallate per il tentativo di scrivere in penombra. La scrittura è scarna, asciutta, essenziale, senza orpelli, come le cose urgenti. È opera di una donna di 51 anni, Olha Meniajlo, imprigionata dai soldati russi nello scantinato di una scuola di Yahidne, piccolo villaggio vicino all’oblast di Chernihiv, a due ore da Kyiv. 

ph: una pagina del diario di Olha, foto di F. Chiamulera/Twitter

È il 5 marzo 2022. La guerra è iniziata da una settimana o poco più quando un gruppo di soldati russi ordina agli abitanti del villaggio di Yahidne – a tutti, uomini, donne, anziani, bambini – di lasciare le loro case e raggiungere il sotterraneo di una scuola. Quella diventa una prigione per 27 lunghissimi giorni. Loro sono in 368 e hanno uno spazio vitale di meno di mezzo metro quadro a testa. La prigionia la trascorrono seduti perché sdraiarsi è impossibile. Dormire è impossibile, tra le urla, i pianti dei bambini, l’esplosione delle bombe. Lì dentro non c’è luce, non c’è riscaldamento, non c’è aria. Non ci sono bagni. E non c’è neanche l’appiglio per aggrapparsi a una speranza. È l’inferno.

«Non ho dubbi, ho visto l’inferno» scrive Olha. «Non c’è luce. La prima cosa che senti è il caldo, l’odore della carne umana. Decine di persone sono accatastate sulle sedie e per terra, le loro sagome tremolano nell’oscurità, proprio come nelle antiche icone che raffigurano l’inferno. Una visione insopportabile».

I prigionieri di Yahidne, in balia di «scimmie ubriache» – è così che Olha definisce i carcerieri – sono convinti che lì ci moriranno. E a morire in quei giorni, di fatto, sono in dieci. Sul diario si legge: «Poljia Makater è morta stanotte. Il suo corpo è stato portato nel locale caldaie». E la pagina del giorno dopo aggiunge: «Abbiamo seppellito Poljia Makater. Ci hanno lasciato avvolgerla in una coperta. L’abbiamo buttata nella fossa dove c’è anche Tolia e siamo andati via senza che le si facesse un funerale».

Il seminterrato della scuola di Yahidne (www.ilfoglio.it)

Gli orrori delle guerre cancellano qualsiasi dignità, per i morti e per i vivi. Nel sotterraneo della scuola di Yahidne i prigionieri devono fare le loro cose in un secchio. A qualcuno viene concesso di servirsi di una latrina approntata nel cortile, sotto l’occhio dei carcerieri, e c’è anche da sentirsi fortunati. Il dramma nel dramma è il ghigno sul volto degli aguzzini, il sospetto sempre più reale che infliggere sofferenze rappresenti un sadico piacere per qualcuno, una scelta del tutto arbitraria e priva di peso, come giocare con la vita di formiche in un barattolo. Olha racconta: 

«Giorno venti. Questa mattina i russi non ci hanno dato acqua da bere. Una nuova forma di bullismo. Poi all’improvviso ci hanno gridato che dieci di noi potevano andare in bagno. Alcuni si sono precipitati alla latrina. A quelli arrivati dopo non hanno lasciato usare il bagno. Li hanno rinchiusi nel sotterraneo. Poi nel pomeriggio ci hanno detto di nuovo che avrebbero lasciato andare in bagno dieci persone. Ci siamo messi in fila, ma i russi hanno cambiato ancora idea e ci hanno detto che ci avrebbero fatto uscire solo tre alla volta». Su altre pagine si legge che chi prova a protestare viene picchiato o addirittura ucciso a bruciapelo, se la guardia è di malumore, che un uomo ha implorato un soldato di non chiudere la stanza perché un bambino stava male per la mancanza d’aria, e quello per tutta risposta gli ha detto: «Lasciatelo soffocare».

Leggere il diario di Olha mi instilla un pensiero spaventoso: forse lì dentro si sperava di morire per sottrarsi a quel supplizio. Alle botte, alle umiliazioni e alle privazioni di ogni genere si aggiunge la tortura psicologica di non sapere quanto tutto ciò sarebbe durato. E infatti molte persone impazziscono, perché a quel punto la follia è l’unica via di fuga possibile, oltre la morte. C’è una donna che parla col figlio deceduto, come fosse ancora il suo bambino; un’altra vaneggia e nel suo delirio dice cose senza senso; un uomo è stato imbavagliato, non la smetteva di gridare e imprecare; un altro ha avuto un attacco epilettico. 

Eppure, proprio laddove l’abisso sembra non avere più confini, la vita da qualche parte trova un varco per non lasciar estinguere il suo guizzo. Dai prigionieri di ogni guerra, ma anche da chi è stato oggetto di un sequestro in altre situazioni drammatiche, giungono storie che si incontrano in un punto: per chi riesce a oltrepassare la voragine iniziale di angoscia e terrore, arriva il momento in cui l’io manifesta con forza sovrumana il desiderio di non soccombere. Ci si aggrappa alla vita, ognuno come può, anche se questo vuol dire consegnarsi alla rassegnazione. Tanto prima o poi finirà. Si raccolgono le risorse interiori in un tentativo estremo di restare nel presente. Vivi, vigili e pacati, dissimulando il peso di un’attesa insostenibile. Chi raggiunge questo stato non ha più paura. Allontana il terrore e non teme più neanche le botte. Ed è allora che il guizzo della vita fuoriesce, quando ti senti ancora umano, ancora appartenente a questo mondo. Esisti e hai ancora voglia di credere in qualcosa. 

«Giorno ventisei. Oggi Glukhi ha portato a Olena l’inno russo su un pezzo di carta e le ha detto di impararlo. Ci ha detto che chi avesse imparato a cantare l’inno russo avrebbe potuto tornare a casa. Nessuno lo ha fatto».

Come se questo piccolo atto di ribellione avesse realmente contato qualcosa, il giorno dopo i prigionieri sono stati liberati. Le ragioni del sequestro non sono state mai chiarite. Olha Meniajlo, prima di uscire di casa quel giorno, ha preso un quaderno e una penna con l’intento di lasciare un documento ai suoi figli, certa che non sarebbe uscita viva da quella sventura. Adesso il suo diario è nelle mani delle giornaliste e scrittrici Olesya Yaremchuk e Svitlana Oslavska, che hanno il compito di trasmettere al mondo intero una testimonianza dal valore inestimabile. 

Olha Meniajlo, ph: F. Chiamulera/Twitter

Queste pagine potranno rivelarsi importanti quando la Russia sarà chiamata a pagare il conto per i suoi crimini di guerra, ma servono anche a noi, soprattutto a noi: ci aiutano a tenere a mente la sofferenza, ci offrono un termine di paragone per renderci conto di quanto siamo fortunati a non essere nati o capitati in un posto di guerra. Forse qualche volta di notte faremo fatica a prendere sonno, col pensiero che corre proprio là, dove l’odio è dilagato; ma almeno saremo dalla parte di quelli che sanno, che hanno voluto sapere, che hanno scelto di condividere, anche solo in minima parte, il dolore degli altri. Ed è giusto così. 

Fonti 

Chiamulera Francesco, 27 giorni prigioniera dei russi, «Il Foglio», 25 settembre 2023, p. 1

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