Il brutalismo in architettura tra etica ed estetica

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Studio BBPR, Torre Velasca (Milano), Ph: CEPhoto Uwe Aranas/Wikipedia

L’architettura brutalista sta riscuotendo un successo senza precedenti, dalla rivalutazione positiva di professionisti e addetti ai lavori (architetti, designer e storici dell’arte) alla partecipazione di un pubblico più ampio. Complice la visibilità di cui gode grazie a pubblicazioni editoriali, mostre, antologie fotografiche sia in Italia che all’estero, senza contare tutto ciò che è pubblicato e condiviso sul web, social network compresi. Non mancano infine, ed è questo l’aspetto più curioso e affascinante, contributi inattesi in chiave pop, che spaziano dalla musica ai videogiochi.

Mi sono chiesta il motivo di quello che, a prima vista, sembra assumere i tratti di un nostalgico revival, poiché il “brutalismo” è una corrente architettonica che ha sempre diviso la critica, a partire dai suoi esordi in Europa nel primo dopoguerra. A favore o contro, senza sfumature intermedie. Perché il cemento, lasciato a vista, è grigio di per sé: o lo ami o lo odi.

Se oggi qualcosa è cambiato, di cosa si tratta? Come interpretarlo? L’antico dilemma si ripropone in chiave diversa, non c’è più un ragionamento che si limita all’estetica, ma una spinta ad agire  che, forse, vorrebbe risolta la dicotomia fra due consorterie, una che punta alla salvaguardia di “capolavori” del patrimonio architettonico, oggi attiva anche su Instagram col movimento #sosbrutalism, l’altra che identifica negli stessi degli “ecomostri” da demolire. La verità, ammesso che esista, non va cercata in posizioni estreme, ma facendo un salto indietro nel tempo e partendo dal punto in cui tutto ebbe inizio.

Siamo negli anni ’50 e le due guerre mondiali hanno creato un vuoto che non è solo fisico. La ricostruzione si avvia in Europa abbracciando ideali diversi, c’è molto fermento ed è solo l’inizio di epocali cambiamenti economici, sociali e culturali. L’industria e la tecnologia si sono rapidamente evolute e nuovi materiali permettono di ampliare gli orizzonti per estendere le città, migliorare le condizioni abitative, offrire servizi e infrastrutture, con la promessa di un futuro migliore. 

Nel 1950 l’architetto svedese Hans Asplund progetta a Uppsala un edificio residenziale che si distingue per la novità del metodo costruttivo: la struttura portante con travi in acciaio, mattoni e cemento armato è lasciata a vista, dentro e fuori l’edificio, senza intonaco né altri rivestimenti. Asplund conia il termine “Nybrutalism” per sottolineare l’essenzialità degli involucri e la rudezza dei manufatti, a dispetto di un’estetica ornamentale fine a se stessa. Questa filosofia è presto adottata nel Regno Unito da due giovani architetti, Alison e Peter Smithson, che vedono nell’esperimento svedese un modello paradigmatico per opere pubbliche monumentali e per ridisegnare gli spazi aperti. Con una forte vocazione sociale che si trasforma quasi in utopia. Forme semplici, materiali nudi, superfici grezze accentuano l’espressività della struttura che deve essere, prima di tutto, onesta, cioè visibile, come nel Barbican Centre che sorge nella City di Londra.

Soddisfare bisogni primari dell’uomo diventa lo scopo della ricostruzione postbellica, come spiega Reyner Benham nel suo saggio New Brutalism per l’Architectural Review, una delle riviste più autorevoli in ambito accademico, facendo riferimento al “beton brut” (cemento armato a vista) usato da Le Corbusier per il primo e più audace esperimento di edilizia sociale, la famosa Unité d’Habitation di Marsiglia. Per accogliere centinaia di persone sfollate, inaugura un’architettura ciclopica con 337 appartamenti e spazi comuni come il tetto giardino, percorsi pedonali, aree verdi, strade con negozi. Tutto integrato in quella che definisce una città-giardino verticale. È un’architettura costruita a misura d’uomo per rispondere ai bisogni della società:

Larchitecture, cest, avec des matières brutes, établir des rapports émouvants*

Da questo momento in poi il Brutalismo si impone come il nuovo risorgimento del dopoguerra con un impegno sociale per ricreare senso di appartenenza e aggregazione. La monumentalità è una conseguenza della tecnica costruttiva: il cemento colato in casseri (stampi sagomati su misura) permette di innalzare pareti verticali e superfici calpestabili di ampie dimensioni. In modo analogo coi pannelli prefabbricati si assemblano strutture mai viste prima: forme semplici e squadrate in proporzioni mastodontiche.

I progettisti riflettono su due aspetti, tipologia e destinazione d’uso degli edifici. Non è un caso che la maggior parte degli edifici siano scuole, università, edifici istituzionali e di culto, residenze collettive che popolano presto ogni angolo del mondo. L’estetica del calcestruzzo diventa totalizzante perché il materiale è versatile e si presta a essere declinato in qualunque forma, così come avveniva nell’antichità per la pietra, plasmata dalla mano dell’uomo. Ne è una prova la facilità con cui conquista l’Europa Occidentale e i paesi del blocco sovietico, prima di raggiungere altri continenti, non solo Stati Uniti e Canada, ma anche Giappone e Brasile, poi Australia e infine anche l’Africa. La vocazione del Brutalismo è questa: un unico linguaggio architettonico (materiali grezzi, chiarezza e onestà dal punto di vista costruttivo) con diverse declinazioni sociali e politiche. 

Tra gli anni ’50 e ’60 la necessità di riorganizzare lo spazio urbano elegge grandi città dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa come luoghi privilegiati di sperimentazione. 

Jasenovac, The Flower Memorial (Croazia) Ph: Andrej/Flickr

Tutti gli esempi di architettura brutalista hanno momenti più o meno felici da parte della critica o del pubblico. In alcuni casi l’esibizione del materiale si esercita come un’arte plastica, suscitando stupore e commozione, come nel memoriale di Jasenovac progettato da Bogdan Bogdanović in Croazia (1959-66) nel campo di concentramento di Jasenovac. La forma è quella dei petali di un fiore in cemento, all’apparenza delicato e leggero. In altri casi si scatena un’immediata repulsione o, al contrario, è un trionfo, come per il Centre Pompidou di Parigi progettato da Ernesto Nathan Rogers e da un giovane Renzo Piano.

Il Salk Institute progettato da Louis Kahn, La Jolla (California) Ph: Jim Harper/Wikimedia Commons

Il mio edificio preferito è il Salk Institute firmato dall’architetto Louis Khan e concluso nel 1956. Il complesso è un centro di ricerca sperimentale fondato da Jonas Salk, lo sviluppatore del vaccino contro la poliomielite, e si trova a La Jolla in California. Due blocchi asimmetrici si affacciano su un cortile centrale con uno specchio d’acqua, chiaramente ispirato agli edifici di culto islamici, ma su scala monumentale. Un lato è aperto verso l’Oceano, creando una connessione naturale fra l’architettura e l’ambiente circostante. Gli spazi aperti danno ampio respiro all’edificio e sono ideati per favorire il contatto, la collaborazione e lo scambio di idee fra gli scienziati. Facciate, pavimenti e dettagli architettonici sono in calcestruzzo grezzo, il cui fascino è rimasto inalterato nel tempo.


E ora facciamo un balzo in avanti. Alle soglie del XXI secolo molti edifici brutalisti hanno un aspetto trascurato, segnati dall’usura del tempo e dagli agenti atmosferici. In assenza di interventi di manutenzione, la natura ha preso il sopravvento e il candido grigiore del cemento è stato soppiantato da macchie di muschio e umidità. È possibile porvi rimedio? A Milano la Torre Velasca, uno degli esempi più iconici dell’architettura brutalista in Italia – da alcuni definita anche Brutalia (crasi di Brutalismo e Italia) – per fortuna oggi è in fase di ristrutturazione. É un caso interessante, poiché evidenzia un problema cruciale per le città storiche, il dialogo fra il vecchio e il nuovo. Senza mezzi termini il Principe Carlo III d’Inghilterra si è schierato in più di un’occasione contro la tutela del Barbican Centre che dovrebbe essere raso al suolo, per obsolescenza e inadeguatezza rispetto al decoro che merita la città londinese. Molti artisti invece hanno scelto questa location per girare video e performance musicali, come Blow Your Mind della cantante Dua Lipa. E, prima di lei, i Coldplay, James Morrison e Moby con Lie down in darkness.

Barbican Centre (Londra) Ph: Jorge Franganillo/Wikimedia Commons

Se nel Regno Unito la dicotomia sembra essere interna alla società, non si può dire lo stesso quando le critiche al brutalismo arrivano da un archistar come Renzo Piano. È stato spiazzante, almeno per me, conoscere il suo pensiero così sincero e disarmante proprio sul Centre Pompidou che si trova a poca distanza dal suo studio:

“quando lo guardo ora, mi chiedo come sia stato possibile che ci abbiano permesso di fare qualcosa del genere” **

Più che risposte, il New Brutalism oggi è un punto di partenza per porci nuove domande e ripensare le nostre città per costruire un futuro sostenibile per tutti.

Barbican Centre (Londra) Ph: Jorge Franganillo/Wikimedia Commons

*Architettura è suscitare emozioni con materiali usati in modo grezzo e primitivo.

**Alessandro Mussolini, 10 fatti poco noti sul Centre Pompidou di Parigi, Living, Corriere della Sera, 20 Febbraio 2020

Bibliografia e sitografia

Simon Phipps, Brutal London, Phaidon, London, 2016

Stefano Perego, Roberto Conte, Brutalist Italy, Fuel, London, 2023

David Watkin, Storia dell’architettura occidentale, Zanichelli, Bologna, 1990

Le Corbusier, Verso un’architettura, Longanesi, Milano, 1973

https://www.archipanic.com/portfolio/yugoslavia-brutalism/

www.domusweb.it

https://www.tate.org.uk/art/art-terms/b/brutalism

https://www.zupagrafika.com/

www.sosbrutalism.org

https://www.ilpost.it/2023/09/18/ritorno-brutalismo/

https://www.architecturaldigest.com/story/brutalist-architecture-101

https://www.elledecor.com/it/best-of/a26307581/brutalist-architecture-design/

https://living.corriere.it/architettura/centre-pompidou-curiosita-storia-fatti/

https://fr.wikiarquitectura.com/salk-institute-louis-kahn-3-2/

https://www.flickr.com/photos/41084246@N00/6868116772