Siria. Il dramma di Idlib tra terremoto e geopolitica

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Il terremoto in Siria e Turchia ha fatto decine di migliaia di vittime. Ph: EV

Pochi giorni dopo il terremoto che ha colpito Turchia e Siria, il responsabile delle Nazioni Unite per le questioni umanitarie, Martin Griffiths, è andato sul confine tra i due paesi e ha ammesso che “la comunità internazionale ha tradito milioni di persone che vivono nella provincia di Idlib”, nord-ovest della Siria, la zona maggiormente colpita dal sisma del 6 febbraio scorso.

Nonostante i tanti appelli, il supporto ai soccorritori, così come gli aiuti ai superstiti, sono stati pochissimi. Oggi, a dieci giorni dal terremoto, la comunità internazionale non è riuscita a mandare a Idlib nemmeno il minimo indispensabile. Per quale motivo tutto questo ritardo? Come mai le agenzie internazionali non riescono a fare fino in fondo il loro lavoro in una delle zone più disastrate del pianeta?

Per comprendere quello che sta succedendo bisogna andare indietro nel tempo. Sono anni infatti che la comunità internazionale ha tradito i siriani che vivono in quella regione. Martin Griffiths avrebbe dovuto ammettere anche questo.

Il complicatissimo quadro geopolitico ha peggiorato in maniera esponenziale gli effetti drammatici del terremoto. Una combinazione che ha aggravato un’emergenza umanitaria che era già senza precedenti. La provincia di Idlib fu una delle prime a ribellarsi al regime di Bashar al-Assad nel 2011, all’inizio della crisi siriana. E oggi è la principale zona del paese, quasi l’ultima, ancora controllata dall’opposizione armata.

Da alcuni anni vige una specie di tregua concordata da Russia e Turchia, la prima per conto di Damasco, la seconda per conto dei gruppi ribelli. In generale, con il suo intervento militare al fianco delle forze governative (2015) Putin ha permesso ad Assad di rimanere al suo posto. Il presidente turco Erodgan, invece, ha utilizzato il sostegno ad alcuni gruppi ribelli nel nord della Siria per accrescere l’influenza turca oltreconfine.

La tregua a Idlib ha parzialmente ridotto l’intensità di scontri armati e bombardamenti, ma in realtà la condizione della popolazione locale non è mai migliorata. Essendo una delle poche zone fuori dal controllo del regime, questa regione ospita decine di migliaia di miliziani dell’opposizione provenienti da tutto il paese e tra i tre e i quattro milioni di profughi interni. Tutti bloccati a Idlib (spesso si sono spostati sei o sette volte per scappare dalla guerra). Dopo aver accolto nei primi anni del conflitto fino a quattro milioni di migranti siriani, la Turchia infatti ha chiuso i suoi confini. Le divisioni geopolitiche hanno fatto il resto.

Damasco, con il sostegno in ambito ONU di Russia e Cina, ha infatti negato, con rare eccezioni, l’invio di aiuti umanitari da paesi terzi alle regioni che sfuggono o sfuggivano al suo controllo. La motivazione formale è il rispetto della sua sovranità territoriale. “Gli aiuti – ha sempre sostenuto Assad – devono passare da noi, poi li possiamo distribuire”.

L’unico passaggio per gli aiuti umanitari internazionali alla provincia di Idlib è da anni il valico di Bab al-Hawa tra Turchia e Siria. In consiglio di sicurezza ONU, Russia e Cina hanno sempre posto il veto all’apertura di altri valichi. Solo negli ultimi giorni, dopo il terremoto e con la comunità internazionale che di colpo si è ricordata dalla crisi siriana (centinaia di migliaia di morti, più di 12 milioni di profughi, oltre centomila persone scomparse nelle carceri governative), sono stati aperti altri due passaggi di frontiera tra Turchia e Siria, anche se non direttamente a Idlib. La decisione è stata presa dopo una trattativa con il regime siriano.

La natura dei ribelli che controllano la provincia di Idlib è un ulteriore elemento critico. La regione infatti è controllata dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham, precedentemente Fronte Nusra, nei primi anni della guerra siriana organizzazione affiliata ad Al Qaida. I suoi leader sono sulle liste dei terroristi stilate dalle agenzie di intelligence occidentali. Un problema non da poco per Europa e Stati Uniti, che almeno formalmente hanno sempre appoggiato l’opposizione al regime di Bashar al-Assad. In questi giorni il capo di Hayat Tahrir al-Sham, Abu Mohammad al-Jolani, ha criticato più volte la comunità internazionale per il ritardo negli aiuti e ha anche rifiutato la possibilità di ricevere aiuti direttamente dal regime, quindi dall’altra parte della linea del fronte intorno a Idlib. Sempre che potessero sul serio arrivare.

Un quadro molto complesso. Figlio di una guerra civile e di una guerra per procura (centrale anche il ruolo di tanti altri paesi del Medio Oriente), che la comunità internazionale sperava di poter dimenticare.