Risale ormai al 31 marzo la proposta di legge di Fratelli d’Italia, che avrebbe previsto sanzioni fino a 100.000 euro contro l’utilizzo di parole inglesi nella pubblica amministrazione. Ha fatto molto scalpore e ha generato la reazione di tutti, portando tutti a immaginare un’estensione di questa eventuale norma alla vita di tutti i giorni. E quindi non si potrebbe più parlare di quanto i social network vadano a ledere la privacy personale. Non si potrebbe più dire che un freelance ha iniziato a lavorare per una startup. E nemmeno che il CEO e il manager di un’azienda, dopo il meeting, hanno organizzato una call per stabilire ASAP il planning.
Ecco: tutto ciò, mi spiace per i vostri portafogli, vi sarebbe potuto costare una fortuna! L’uso delle parole inglesi in italiano, note anche come anglicismi, è ormai un fenomeno alquanto diffuso nella nostra società. La lingua, specchio della società e del mondo che ci circonda, si è sviluppata in linea con le tendenze sociologiche contemporanee: l’approdo di termini inglesi nella nostra lingua è una conseguenza diretta della globalizzazione e dello sviluppo tecnologico. Com’è naturale che sia, il linguaggio si evolve e si modifica in continuazione ed ecco che nuove parole sono entrate nel nostro vocabolario di tutti i giorni. Ci è voluto sicuramente del tempo, è un processo complicato, ma una volta che una parola smette di suonare strana al nostro orecchio e inizia a essere assimilata come naturale, ecco che tale processo è stato portato a compimento.
Ma facciamo un passo indietro. Per poter analizzare il ruolo degli anglicismi e i motivi che ci spingono a usarli, è necessario chiarirne il concetto. La definizione è riportata dal dizionario Treccani: “Parola, locuzione o costrutto proprio della lingua inglese, importato in altra lingua, sia nella forma originale (…), sia adattato foneticamente”. Da non confondere quindi con i calchi, che si manifestano quando nella propria lingua si riproduce una struttura propria di una lingua straniera, che risulterà quindi goffa e poco naturale. I prestiti dalla lingua inglese iniziano a comparire nel ‘700, quando la lingua inglese inizia ad assumere sempre più importanza a livello internazionale. A questo punto c’è un avvicinamento verso la cultura inglese, si inizia a studiarne la lingua e la letteratura. I primi nuclei consistenti di anglicismi riguardano la vita sociale (club, humour). Questo processo si intensifica poi nell’800, quando gli anglicismi si sono diffusi anche in altri ambiti quali la vita mondana (leader, dandy) e la terminologia ferroviaria (tunnel, rail), in seguito all’avvento della rivoluzione industriale. Con l’avvento del ‘900, poi, i termini inglesi che arricchiscono la lingua italiana si espandono ad altri campi: l’economia (business, boom), la radio e il cinema (film, set, cast), lo sport (goal, cross, dribbling) e la vita quotidiana (barman, shopping). Risale ai tempi del fascismo il primo tentativo di intervento contro i forestierismi che minacciavano di contaminare eccessivamente la lingua italiana: è stato infatti proibito di utilizzare parole straniere. È a questo periodo che dobbiamo la diffusione di forme alternative di alcune espressioni originariamente straniere: il goal è diventato la rete, il record è diventato il primato. Il croissant è diventato un cornetto: è buffo il fatto che oggi quasi tutti al bar ordiniamo una brioche. Le parole di maggior uso hanno probabilmente avuto la possibilità di consolidarsi nella lingua e di restare, in altri casi un po’ meno (penso che nessuno di noi, al bar, ordini una bevanda arlecchina, casomai un cocktail). Nel dopoguerra, la diffusione mondiale dell’inglese americano comporta un numero sempre più alto di anglicismi nella lingua italiana. Per la prima volta, è stata una diffusione dal basso e attraverso slogan che hanno permesso a queste espressioni di insediarsi con forza all’interno del vocabolario di tutti i giorni. Ecco che gli anglicismi si sono diffusi nel mondo del cinema e della televisione (news, zapping), nella pubblicità e nel marketing (sponsor, testimonial) e ovviamente nel gergo giovanile. Oggigiorno, l’evoluzione linguistica ha portato a una forte presenza degli anglicismi nella lingua italiana, spesso in forma di aggettivi (organizzazione no-profit). I termini inglesi vengono assorbiti come prestiti integrali (download) oppure sono soggetti a calchi (scaricare). Tal volta la pronuncia risulta leggermente incerta e per comodità si opta per un’enunciazione più simile all’italiano, con forme ormai radicate ma che non rispettano la pronuncia originale inglese (bus, shampoo). Per quel che riguarda la forma plurale, invece, resta invariata (sport). Vi è poi il fenomeno dei pseudoanglicismi, che potremmo definire dei falsi amici, in quanto sono dei calchi inesatti: la forma riprende quella dell’inglese, ma ha un significato completamente diverso.
Chiarito il quadro storico degli anglicismi, è possibile analizzare la loro funzione. Andando oltre la distinzione tra prestiti di necessità e prestiti di lusso, ovvero la differenza tra l’assimilazione di una parola da una lingua straniera per descrivere qualcosa che nella cultura ricevente non ha una definizione e quelle parole usate per dare quel tocco di virtuosismo alla lingua (come i francesismi in inglese, per esempio), ci vogliamo soffermare sul valore degli anglicismi e sui motivi che hanno portato a una diffusione così minacciosa da spingere Fratelli d’Italia ad avanzare una proposta di legge per salvare l’italiano. È chiaro che usare un termine inglese ci fa credere di avere quella autorità in più. Assistiamo a un fenomeno decisamente curioso per cui la stessa funzione, la stessa carica lavorativa, risulta molto più importante in inglese di quanto lo sia in italiano. Inserire degli anglicismi può rientrare nell’ottica dell’economia di linguaggio: l’inglese, rispetto all’italiano, ha un linguaggio molto più espressivo e molto più diretto. Chi si è affacciato qualche volta al mondo della traduzione avrà sicuramente provato la frustrante sensazione di dover trovare le parole in italiano per tradurre un’espressione talmente chiara e concisa inglese. O viceversa: come rendere in inglese un testo italiano, che dice tutto e non dice nulla allo stesso tempo, in un modo efficace? Per questo, un oratore che fa ricorso a un certo numero di anglicismi può dare l’impressione di essere molto più diretto, preparato ed efficace. Questo si rivede nel mondo del marketing e nella forza delle pubblicità che sono altamente diffuse. Anche il mondo del cinema e delle serie tv, con il forte seguito del giorno d’oggi, contribuisce alla diffusione degli anglicismi. I fan accaniti, infatti, tendono a guardare questi contenuti in lingua originale, che per lo più è l’inglese. Tendono quindi a popolare i social network (o le reti sociali, chiedo scusa) di espressioni tipiche di quella serie. La conseguenza più sottile è il cambiamento della percezione linguistica: l’italiano va via via inglesizzandosi senza che ce ne accorgiamo. A furia di sentire così tanto inglese, o serie tv doppiate sull’inglese che ne riprendono la struttura linguistica, alcune forme finiscono per entrare nel vocabolario di tutti i giorni, sebbene non siano esattamente la prima cosa che ci viene in mente da madrelingua. Un esempio è il verbo realizzare: dall’inglese si sta diffondendo sempre di più l’accezione di “rendersi conto di qualcosa”, ma la prima definizione di realizzare è quella di far diventare reale qualcosa, un sogno o un progetto per esempio.
In questo ampio contesto, ci possiamo permettere una piccola provocazione. Se guardiamo da vicino il discorso del primo maggio del Presidente Giorgia Meloni, è curioso notare l’etimologia delle parole che ha scelto. Sono preponderanti le parole di origine latina e greca, come lavoro, superbonus, governo, festa. Se il problema riguarda le parole di origine inglese, perché dovremmo risparmiare le parole di origine latina e greca? In quest’ottica risalta tuttavia l’utilizzo della parola fringe benefit: ovviamente avrebbe potuto parlare di tutti quei beni e servizi aggiuntivi (come auto aziendali, borse di studio, viaggi premio) rispetto alla retribuzione erogati da un’azienda al proprio personale direttivo. Eppure, persino il Presidente ha deciso di utilizzare il termine inglese. Questo dovrebbe farci molto riflettere: non è questa la sede per giudicare la posizione politica del governo, ma l’impossibilità di una reale applicazione della proposta di legge citata all’inizio di questo articolo diventa lampante.
È evidente che si tratta di un tema delicato: gli anglicismi, ovvero questi costrutti tipici della lingua inglese importati in italiano, sono arrivati nella nostra lingua piano piano, diffondendosi di settore in settore. Oramai fa parte della nostra vita: pare dunque difficile poter pensare di controllare una simile ondata. Anche perché l’inglese a sua volta è una lingua che, diffusa in tutto il mondo, si è arricchita ampiamente accogliendo termini da tutte le lingue del mondo. Perché noi dovremmo complicarci la vita? Vi è poi il problema opposto, ovvero l’abuso di queste parole inglesi per credere di avere maggiore credibilità e autorevolezza. Come sempre il troppo stroppia e probabilmente bisognerebbe documentarsi per controllare che il significato della parola inglese corrisponda a quello che è il messaggio che vogliamo trasmettere. Altrimenti si ottiene il risultato opposto, risulterebbe fuori luogo e il nostro pubblico smetterebbe di ascoltarci. Tuttavia, l’ardua sentenza ai posteri: è difficile decretare quale sia il giusto atteggiamento e quale quello sbagliato. Forse la lingua è talmente unica e particolare che diventa difficile concepire una regola generale, una norma che valga sempre. Persino le grammatiche sono formate da eccezioni. Le lingue sono fluide, ed è questo che le rende vive. La soluzione, o meglio il compromesso, potrebbe quindi essere di valutare caso per caso. Un mantra per chi ha fatto qualche lezione di traduzione o di lingua una volta nella sua vita: dipende dal contesto. In alcuni casi, infatti, utilizzare la parola inglese è necessario. Cercare un corrispondente italiano diventa complicato e controproducente, perché nessuno lo capirà. Ma quando c’è una parola italiana, perché non usarla? Certo, se ci fosse una parola in italiano…
Fonti
Study of pragmatic aspects of anglicisms in Italian media texts, A. G. Sokolova, 2014, National Research Moscow State University of Civil Engineering, Mosca, Russia.
https://www.treccani.it/vocabolario/anglicismo/
https://www.terminologiaetc.it/2009/02/27/prestiti-e-calchi-in-italiano/
https://www.scambieuropei.info/parole-inglesi-usate-in-italiano/