Lo spazio della maschera africana

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Ph: Courtesy of Luca Fusi

Lo scorso aprile la Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano ha dedicato un fine settimana a un seminario sulla maschera africana. Sono stati due giorni intensi, che hanno offerto ai ragazzi della scuola di teatro di Fondazione Milano la possibilità di entrare in contatto con la realtà del teatro dell’Africa Occidentale. 

Con la supervisione di Luca Fusi, regista e formatore teatrale con una lunga esperienza di teatro in Burkina Faso, il laboratorio ha visto la partecipazione di due personalità di spicco del teatro burkinabé: Papa Kouyaté e Sada Dao. Papa Kouyaté ha ereditato la vocazione per il teatro dal padre, Sotigui Kouyaté, attore storico di Peter Brook, e oggi direttore del centro sociale e culturale Djeliya a Bobo-Dioulasso, in Burkina Faso. Sotigui Kouyaté è architetto e scenografo, ma soprattutto artista e griot. È stato proprio lui a parlare di “griottismo” e del legame intrinseco della maschera africana con la figura del griot (o della griotte), ovvero colui che guida la maschera durante i rituali. In video collegamento con il centro di Djelia, Papa Kouyaté ha presentato un’interessante riflessione sul ruolo del griot, ripercorrendone le vicende che rimandano a un passato molto lontano, ma pur sempre presente nell’Africa odierna, in particolare in Burkina Faso

Sada Dao, scenografo burkinabé e titolare di un dottorato presso l’Università di Clermont Ferrand, si è invece occupato di un laboratorio teatrale, interpretandolo come naturale prosecuzione del seminario teorico. Figura poliedrica in costante aggiornamento e reduce da sperimentazioni in ambito scenografico teatrale durante il periodo della pandemia, ha guidato gli aspiranti attori in un percorso di teatralizzazione dello spazio scenico della maschera africana. Con un duplice obiettivo: attualizzarla alla realtà contemporanea e proporla come chiave di lettura in una cultura, quella italiana, completamente diversa da quella del suo paese d’origine.

L’Africa e la sua memoria, l’importanza di salvare la sua cultura orale e le tradizioni legate al territorio e alla socialità delle persone che lo abitano, sono tutti temi che si comprendono ripercorrendo l’excursus storico che Papa Kouyaté ha illustrato efficacemente in un seminario durato tre ore. Perché il griot è ancora l’essenza dell’Africa Occidentale? In passato era investito di un ruolo sacrale e trascendentale, fungendo da tramite fra il re e i capi tradizionali che non potevano comunicare direttamente con la popolazione. Portavoce di valori e tradizioni, alla funzione pedagogica univa quella di consigliere e politico nella corte reale e nei campi di battaglia. Lo faceva con la musica e con il canto, usando codici riconoscibili a tutti gli appartenenti alla comunità.

Anche oggi il griot parla a tutti, adulti e bambini, mantenendo un legame molto stretto con gli antenati che per gli africani rappresentano la spiritualità. Sia pure con un ridimensionamento dei ruoli – nell’antichità il griot era, ad esempio, un genealogista, oltre che detentore di un sapere orale fatto di proverbi, parole e modi di esprimersi – nella regione del Mandingo il griot incarna la memoria collettiva. Ha mantenuto infatti il suo ruolo di cerimoniere. Interviene, tra l’altro, nelle ricorrenze solenni, per celebrare un defunto che magnifica, cantandone le lodi e accompagnando l’uscita delle maschere davanti a tutti gli abitanti del villaggio. Una cerimonia funebre che è insieme un rito di passaggio e una lezione di vita. Oltre a custodire e a trasmettere la storia e la cultura della propria comunità con racconti e leggende, il griot ha un’importante funzione educativa per i bambini che, oggi come cinquecento anni fa, possono accedere alla conoscenza che non si apprende dai libri, ma dalle esperienze di vita comunitaria a cui tutti partecipano. Se nell’antichità il griot era il maestro dell’arte della parola, della danza, della musica e della seduzione, oggi i griot possiedono ancora questi talenti. Alcuni di loro sono musicisti, altri attori, altri danzatori, oppure possono incarnare più abilità artistiche e metterle in scena ogniqualvolta la società di appartenenza lo richieda. I griot hanno nella società contemporanea un duplice ruolo: da un lato sono persone comuni che svolgono un lavoro remunerato per mantenere se stessi e la propria famiglia, dall’altro sono degli iniziati a un’attività che non si esaurisce in uno spettacolo di puro intrattenimento. La danza sacra infatti è diversa dalla danza sul palcoscenico. A partire da un fenomeno di iniziazione, che può avvenire molto presto quando si è ragazzini, ognuno poi lo studia e lo interpreta in modo personale, e responsabile, per la propria comunità. E così chi danza rappresenta il villaggio, non se stesso. C’è quindi una profonda differenza fra un ballerino che può benissimo danzare per un pubblico, come potrebbe essere quello occidentale, e lo stesso ballerino che, in occasione di un rituale sacro, si spoglia della propria identità per rappresentare il villaggio. Nel primo caso si può parlare di un lavoro, nel secondo di una responsabilità sociale e di un rituale trascendentale. 

Ph: Courtesy of Luca Fusi

Papa Kouyaté ha spiegato come tutto questo non sia da interpretare come qualcosa di esotico e di eccezionale, ma come facente parte dell’essenza stessa della maschera africana. Quando entra in scena, il griot conduce e accompagna le maschere che corrispondono a determinati animali, nessuno è a conoscenza di chi ci sia sotto quelle maschere. Ogni maschera è diversa dall’altra e ha un significato preciso che per essere interpretato, o per meglio dire portato, richiede molti anni di studio e di specializzazione. La maschera e chi la porta si fondono sino a diventare un’unica cosa. La distinzione fra l’oggetto e la persona si annulla. E tutto questo è molto tipico e caratteristico della cultura africana.

Ne abbiamo parlato in una lunga intervista con Luca Fusi, attore, regista e formatore teatrale che, dopo avere dedicato buona parte del suo percorso professionale alla scoperta e allo sviluppo del teatro dell’Africa Occidentale, si è da poco trasferito a Milano per assumere l’incarico di docente alla Scuola di Teatro Paolo Grassi. Quando lo incontriamo, ci accoglie negli spazi all’aperto della scuola, adiacenti il Parco Ravizza, il luogo in cui si è svolto il laboratorio pratico con Sada Dao nelle due giornate di formazione sulla maschera africana. In mente abbiamo tante domande, una in particolare è legata alla cultura materiale dell’Africa, qualcosa che noi sentiamo di avere in parte perso: il rapporto con gli oggetti e con la terra.

“L’oggetto è fondamentale nel momento in cui tu lo usi e te ne prendi cura”

La maschera appesa a una parete come decorazione non ha alcun quindi valore in sé per la cultura africana. La maschera è qualcosa di vivo, esiste ed è presente nel momento in cui la si porta in scena. Allo stesso modo la terra è viva perché vi sono sepolti gli antenati. È qualcosa di cui ci si prende cura in ogni momento della propria vita, con gesti e rituali noti agli africani, ma incomprensibili per chi si avvicina come semplice turista e non cerca qualcosa di più profondo.

Ph: Courtesy of Luca Fusi

E ancora Luca Fusi ci spiega come le case in terra richiedano una manutenzione costante, come ad esempio per l’intonaco che deve essere rifatto ogni anno. Questo vale sia per le case dei villaggi che per gli edifici sontuosi, come la moschea di Timbuktu. Il pragmatismo e la spiritualità non sono così disgiunti come ci immaginiamo. Gli oggetti e le opere d’arte conservati nei musei sono bellissimi e hanno un valore straordinario, ma per la cultura africana tutto ciò che non entra in relazione con la persona è svuotato del suo significato autentico rispetto a una funzione che rappresenta.

Dal concetto di funzione ci spostiamo a quello di fruizione, per parlare di teatro. La teatralizzazione della maschera in Burkina Faso, paese in cui Luca ha lavorato e vissuto per quasi vent’anni, si è sviluppata a partire dalla reinvenzione della maschera del teatro dell’arte, grazie all’esperienza portata da Serena Sartori (figlia di Amleto Sartori, legato alle figure di Dario Fo, Giorgio Strehler e Paolo Grassi) a Bobo Dioulasso, una delle città più attive in ambito teatrale negli anni Duemila. È qui che Luca ha aderito, proprio in quel periodo, a un progetto di collaborazione che l’ha portato alla scoperta di un mondo in cui si faceva molta sperimentazione. Collaborando con Jean Pierre Guingané e Ildevert Meda, si è avvicinato al teatro forum e al teatro debat, forme di teatro di intervento sociale con una vocazione formativa. Si trattava infatti di creare un progetto di professionalizzazione del teatro che, a un certo punto, arrivò a far sì che gli spettacoli fossero pagati. I suoi interessi personali e professionali si sono poi progressivamente intrecciati nel corso degli anni e l’hanno portato nella capitale del Burkina Faso, Ouagadougou. Nel 2005 c’era già un teatro stabile di produzione e diffusione della cultura africana, l’unico dell’Africa Subsahariana. Oggi questa realtà è molto cresciuta, potendo contare sulla presenza di cinque teatri che fanno stagione, oltre a festival annuali e da poco alla grande diffusione del teatro umoristico. Il percorso di formazione immaginato da Luca Fusi e Jean Pierre Guingané ha contribuito alla raggiungimento di questo traguardo, con l’idea di far conoscere il teatro burkinabé anche fuori del continente africano. Il riconoscimento internazionale è stato importante per far conoscere la cultura locale e restituirle una dignità che spesso era venuta meno, paradossalmente in misura maggiore con la fine del colonialismo, a causa di approcci in prevalenza paternalistici che non portavano a coglierne l’autenticità.

Ma la sua esperienza è preziosa soprattutto per il valore dato allo scambio fra due culture e due modi di fare teatro, quello occidentale – che per Luca Fusi è il teatro di movimento di formazione Lecoq – e quello africano. È stato un lavoro lungo, fatto di avvicinamenti e adattamenti reciproci basati sul dialogo e sulla condivisione. Luca Fusi è una figura che in tal senso è come un ponte fra due mondi, alla ricerca di un’universalità:

“Quello che mi ha sempre interessato nella pedagogia e nell’insegnamento è ciò che Lecoq chiama il fondo poetico comune. Nella mia esperienza il lavoro di ricerca e di sintesi è stato molto importante per arrivare a scoprire le specificità culturali. Possiamo chiamarle in tanti modi, e diversi tra loro, ma tendono tutte all’individuazione di archetipi e temi comuni che interessano tutti gli esseri umani”.

Quando gli chiediamo di spiegarci in che modo abbia portato il teatro occidentale in Africa, ci parla, ad esempio, di Shakespeare, e ci racconta di come luoghi e personaggi nei suoi spettacoli a Ouagadougou siano stati restituiti in chiave locale, per essere compresi e riconosciuti dal pubblico e dagli stessi attori. Se non si può prescindere dalla padronanza tecnica e dall’insegnamento dei classici, è però necessario un adattamento alla cultura locale, altrimenti si finisce per penalizzare il pubblico che assiste a uno spettacolo senza farne parte. E in Africa il pubblico fa parte dello spettacolo. È forse l’essenza del teatro in una prospettiva futura. Il teatro che va verso il pubblico e non (solo) il contrario. Del resto è proprio questo che ha fatto Sada Dao quando ha invitato i ragazzi della Scuola di Teatro Paolo Grassi a uscire all’aperto, nel parco, per provare e mettere in scena il loro spettacolo. In una scenografia circolare, tipicamente africana, in cui sia lo spettatore che l’attore si possono guardare e osservare in ogni momento, lo spettacolo è stato creato sia dagli attori che dal pubblico, formato da adulti e bambini che si sono avvicinati con entusiasmo e spontaneità. Perché lo spettacolo, alla fine, funziona ed è vivo se riesce a trasmettere emozioni. 

Ph: Velafrica 2018 – Noel Vollmer

Riferimenti bibliografici e sitografia

Faire du théâtre pour développer, Prosper Kompaore, Édition ATB – 1998 

Festival de théâtre et développement en Afrique, Analyse de l’impact du FITMO au Burkina Faso, Hamadou Mande, 2011, Editions Universitaires Européennes

Le CITO 

Un maillon fort du theatre au Burkina Faso 20 ans de créativité et de résistence, Annette Buehler-Detrich e Noufou Badou, Edition OEIL Collection, 2017 

Ecole Supérieure de Théâtre Jean – Pierre Guingané

Espace Culturel Gambidi

Festival International de Théâtre et des Marionettes de Ouagadougou FITMO

Espace Culturel Gambidi (sito in costruzione)

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