Fabrizio De André e il dialetto genovese: quando la lingua diventa cultura

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Italian magazine Radiocorriere, n. 17, 1971, Public domain, via Wikimedia Commons

Fabrizio De André : la voce di una città

Fabrizio De André è, per molti, la voce poetica più profonda della canzone italiana del Novecento: un cantautore capace di raccontare l’umano con delicatezza, rigore e una sincerità fuori dal comune. Tra tutte le sue scelte artistiche, una delle più sorprendenti fu quella di cantare interamente in dialetto genovese, una lingua che all’epoca, negli anni Ottanta, non sembrava affatto una scelta ovvia per un artista con ambizioni nazionali e internazionali. È proprio questa scelta, però, che trasforma la voce di De André in un ponte tra lingua, identità e cultura: il dialetto non diventa mero “localismo”, ma veicolo di memoria collettiva e strumento per raccontare il mondo. In questo articolo ci concentreremo su due canzoni emblematiche di questo percorso: Crêuza de mä e ’Â çímma.

Il dialetto: una scelta controcorrente

Negli anni ’60 e ’70, la canzone italiana aveva certamente visto l’uso di dialetti, basti pensare ai primi brani di Modugno scritti in dialetto sanpietrano o alla fiorente scena della canzone milanese con artisti del calibro di Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Nanni Svampa, ma un album interamente in una lingua regionale era praticamente impensabile. 

Quando, nel 1984, De André pubblicò l’album Crêuza de mä con testi integralmente in genovese, molti critici e produttori dubitarono del successo dell’operazione. Eppure De André non si fece intimidire: per lui il dialetto non era una concessione folkloristica, ma uno strumento ideale per rendere il suono della parola, la musica e il ritmo della narrazione radicati nella vita stessa della gente di mare.

Il genovese, nelle sue canzoni, non è semplicemente “parlato”, ma cantato, reso vivo da accenti, assonanze mediterranee e dalla musicalità intrinseca della lingua. La sua scelta nacque dalla necessità di affrontare temi umani profondi partendo da una prospettiva esistenziale e culturale, prima ancora che musicale.

Infatti il dialetto genovese, o ligure, è una lingua romanza con profonde radici storiche nel bacino del Mediterraneo. Pur trattato spesso come un semplice “dialetto”, esso conserva una ricchezza lessicale e fonetica frutto dei secoli di scambi commerciali e culturali che Genova, città di porto, ha vissuto: influenze catalane, arabe, turche e provenzali sono riscontrabili nella sua struttura e nei suoni.

In questo senso, il genovese non è solo un mezzo di comunicazione locale, ma testimonia l’identità storica di una comunità in costante movimento tra terra e mare. Per De André, dunque, usare il genovese significava richiamare questa identità nel modo più autentico possibile, senza mediazioni retoriche.

Crêuza de mä: il Mediterraneo che parla genovese

L’album Crêuza de mä uscì nel 1984 ed è considerato una pietra miliare non solo nella carriera di De André, ma nella storia della canzone italiana: è forse il primo disco interamente cantato in genovese ad avere un impatto internazionale significativo.

In collaborazione con il musicista Mauro Pagani, De André compose un’opera che fonde linguaggi musicali mediterranei, arrangiamenti ispirati a sonorità etniche e testi radicati nella cultura ligure e più ampiamente mediterranea. La scelta di un linguaggio apparentemente “ristretto” come il dialetto si rivela, paradossalmente, un modo per allargare l’ascolto a sensazioni universali.

Il titolo stesso, Crêuza de mä (letteralmente “mulattiera di mare”), suggerisce un richiamo a percorsi di mare e di terra, a sentieri di confine tra elementi e culture.

Il brano principale, che porta il suo stesso nome, apre l’album con un’immagine potente:

Umbre de muri, muri de mainé
dunde ne vegnì, duve l’è ch’ané
da ‘n scitu duve a lûn-a a se mustra nûa
e a nuette a n’à puntou u cutellu ä gua

[Ombre di facce, facce di marinai / da dove venite, dov’è che andate / da un posto dove la luna si mostra nuda / e la notte ci ha puntato il coltello alla gola]

Vediamo schiere di marinai, con i loro volti inconfondibili segnati dal sole e dalla salsedine. La narrazione si apre con il loro ritorno in porto dopo aver passato la notte a pescare in mare aperto, senza la certezza di tornare incolumi a terra.

E ‘nt’a cä de pria chi ghe saià
int’à cä du Dria che u nu l’è mainà
gente de Lûgan facce da mandillä
qui che du luassu preferiscian l’ä
figge de famiggia udù de bun
che ti peu ammiàle senza u gundun.

[E nella casa di pietra chi ci sarà / nella casa dell’Andrea che non è marinaio / gente di Lugano facce da tagliaborse / quelli che della spigola preferiscono l’ala / ragazze di famiglia, odore di buono / che puoi guardarle senza preservativo.]

Li seguiamo in una locanda, la cosiddetta “cä du Dria”, dove i marinai vanno a riposarsi e rifocillarsi. Qui si incontra gente di ogni tipo: da loschi contrabbandieri svizzeri agli stolti del paese, che di un pesce preferiscono l’ala, ma anche ragazze per bene, che si possono “ammirare” senza contraccettivi.

finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na crêuza de mä.

[finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere / fratello dei garofani e delle ragazze / padrone della corda marcia d’acqua e di sale / che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.] (*1)

I marinai restano a far baldoria fino alle prime luci del mattino seguente, quando saranno costretti a ripercorrere quella mulattiera di mare che conduce fino al porto, dove li attendono le loro barche.

In queste righe il dialetto non è solo utilità comunicativa, ma diventa suono poetico: le assonanze e l’intonazione riflettono il ritmo delle onde, dei passi su una crêuza, della vita che si intreccia con la geografia del porto. Il testo è ricco di immagini marine (il mare, l’alba, le reti) ma anche di contrasti esistenziali: tra terra e acqua, tra passato e futuro.

De André utilizza termini legati alla vita quotidiana del porto e dei marinai per narrare un’esistenza fatta di viaggi, nostalgia e identità collettiva. La scelta del dialetto, in questo caso, crea un legame diretto tra il luogo (la riviera genovese e il Mediterraneo) e il vissuto umano.

La canzone fa riferimento alle tradizioni della vita marittima: l’uso di termini specifici radica la narrazione in un mondo che non è semplicemente locale, ma simbolico. Questi elementi fungono da metafora del viaggio umano, delle partenze e dei ritorni, della fatica e della speranza.

Sebbene cantata in genovese, la sonorità del testo, insieme alla musica, travalica la barriera linguistica: De André dipinge un vero e proprio quadro, e lo popola di personaggi che evocano un’immagine vivida della riviera ligure, facendoci percepire chiaramente l’atmosfera suggestiva del mare e delle comunità che vivono sulle sue sponde.

’Â çímma: la quotidianità soltanto all’apparenza

’Â çímma, presente nell’album Le Nuvole (1990), è un brano che riflette la collaborazione tra De André e Ivano Fossati. Il titolo e il tema ruotano attorno alla cima alla genovese, un piatto tradizionale ligure: un pezzo di pancia di vitello viene aperto in modo da formare una tasca, farcito e poi richiuso cucendolo a mano. L’involto viene poi bollito in un brodo con erbe aromatiche selvatiche, il cosiddetto “prebuggiun”. É un piatto che nasce povero, realizzato con ingredienti di recupero, ma che attraverso la pazienza, la cura e l’attenzione di chi lo cucina viene trasformato in una prelibatezza.

Ciò che potrebbe apparire inizialmente come una semplice descrizione della preparazione di un piatto si rivela un ancoraggio poetico a temi esistenziali più ampi.

Le prime righe del brano evocano una scena mattutina:

Ti t’adesciâe ’nsce l’èndegu du matin
ch’à luxe a l’à ’n pè ’n tera e l’àtru in mä
ti t’ammiâe a ou spegiu de ‘n tianin
ou çé ou s’ammià a ou spegiu dâ ruzà.

[Ti sveglierai sull’indaco del mattino / quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare / ti guarderai allo specchio di un tegamino / il cielo si guarderà allo specchio della rugiada ] 

Vediamo un cuoco alzarsi alle prime luci dell’alba, accompagnato soltanto dal sorgere del sole sul mare, per cominciare a preparare la cima alla genovese, un piatto elaborato che richiede ore di lavoro.

Çé serén tèra scûa
carne ténia nu fàte néigra
nu turnâ dûa
e ‘nt’ou núme de Maria
tûtti diài da sta pûgnatta
anène via.

[Cielo sereno terra scura / carne tenera non diventare nera / non ritornare dura / e nel nome di Maria / tutti i diavoli da questa pentola / andate via.]

Il cuoco intona una vera e propria preghiera per la buona riuscita del piatto. Invoca il nome di Maria, affinché la carne non si bruci, la tasca di vitello non si apra durante la cottura, e il “rituale” della cima vada a buon fine.

Poi vegnan a pigiàtela i câmé
te lascian tûttu ou fûmmu d’ou toêu mesté
tucca a ou fantin à prima coutelà
mangè mangè nu séi chi ve mangià.

[Poi vengono a prendertela i camerieri / ti lasciano tutto il fumo del tuo mestiere / tocca allo scapolo la prima coltellata / mangiate mangiate non sapete chi vi mangerà.] (*2)

Ma alla fine, questo piatto preparato con tanta cura non sarà assaporato da chi l’ha cucinato ma finirà sui piatti dei commensali. L’unica rivincita che può concedersi il cuoco è di augurargli che la pietanza gli vada di traverso.

Questo brano non descrive solo un processo culinario, ma richiama metaforicamente la transizione tra due mondi, tra elementi naturali e vita quotidiana, tra l’immutabilità e la serenità dei primi e l’asprezza della seconda, davanti alla quale certe volte non si può far altro che affidarsi alla preghiera.

Il testo trabocca di descrizioni sensoriali: specchiarsi nel tegame, sentire il profumo delle erbe, vedere “carne tenera” pronta per la cucina. Questi elementi, pur appartenendo a un contesto domestico, sono resi con grande ricchezza linguistica e poetica, come se fossero immagini di un rito collettivo che unisce vita, cultura e memoria.

La lingua genovese, qui, non è usata per chiudere il testo in una sfera locale, ma per mettere in scena un’esperienza umana profonda: l’atto di cucinare diventa simbolo di cura, tradizione e nostalgia, in cui il dialetto funge da legame tra generazioni e identità. 

Inoltre, il continuo alternarsi tra immagini quotidiane e richiami spirituali, come nel ritornello che evoca il “cielo sereno” e la protezione nel “nome di Maria”, rivela una tensione tra sacro e profano che attraversa la cultura popolare ligure.

Il dialetto come atto culturale e politico

L’uso del genovese da parte di De André non è soltanto stilistico: è atto politico e culturale. Negli anni in cui la standardizzazione delle lingue dominava i media, egli propose un’alternativa che valorizzasse le identità locali, dando voce alle culture e alle storie spesso marginalizzate.

Cantare in dialetto significa, per De André, resistere all’omologazione e ribadire l’importanza delle diversità linguistiche e culturali. È un invito a guardare oltre la lingua dominante e a riscoprire linguaggi che raccontano mondi profondi spesso trascurati dalle narrazioni ufficiali.

Quando la lingua diventa cultura

L’eredità di De André va ben oltre la sua discografia: la sua scelta di cantare in genovese e in altri dialetti ha contribuito a valorizzare queste lingue nel panorama musicale italiano, aprendo la strada a generazioni di artisti che oggi sperimentano con lingue locali senza timore.

Oggi Crêuza de mä non è solo un album di culto, ma un punto di riferimento per chi cerca una musica che unisca linguaggio, memoria e tematiche socio-culturali. Questo lavoro ha dimostrato come una lingua apparentemente “minore” possa veicolare significati profondi e creare connessioni emotive in ascoltatori di diverse provenienze.

Fabrizio De André ha trasformato il dialetto genovese da elemento locale in lingua della cultura e dell’identità universale. Attraverso brani come Crêuza de mä e ’Â çímma, egli ha dimostrato che la lingua non è un limite, ma una risorsa narrativa e poetica potente. Il genovese nelle sue canzoni diventa un modo per raccontare il mondo, con tutte le sue contraddizioni, le sue bellezze e le sue ferite, in un modo che travalica confini geografici e temporali, parlando direttamente al cuore di chi ascolta.

Note

N.B.: Le citazioni dai testi delle canzoni, frutto di ascolto personale, sono riprodotte a scopo di analisi critica e culturale, conformemente all’art. 70 della Legge sul diritto d’autore. Le traduzioni sono originali e realizzate appositamente per questa pubblicazione. Tutti i nomi, titoli di brani e marchi citati appartengono ai rispettivi proprietari. L’uso che se ne fa in questo articolo ha esclusivo scopo culturale e informativo.

(*1)(*2): tutti i brani citati sono reperibili online, in videoclip sulle principali piattaforme multimediali.

Bibliografia

https://www.marianobrustio.it

https://www.criticaletteraria.org/2012/11/pillole-di-autore-poesie-dal-mare-il.html

https://www.ondamusicale.it/musica/125584-fabrizio-de-andre-e-creuza-de-ma-uno-sguardo-profondo-sul-mediterraneo/

https://www.songtell.com/fabrizio-de-andr/a-cimma

https://tribunemag.co.uk/2021/05/italys-leonard-cohen-the-radical-folk-music-of-fabrizio-de-andre

https://happylibnet.com/doc/211056/e-la-canzone-d-autore

https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/Faber/7_Masciullo.html

https://youtu.be/ryemEsAX7Fg?si=aGn7f88-XoXYwRWd

https://youtu.be/IdIxWsJKLKg?si=aWSUgFUNgjF9ntkh